mercoledì 28 dicembre 2011

Ho visto agire s'Accabadora

In questa interessantissima e importante intervista-documento, realizzata dall'antropologa Dolores Turchi, viene raccontato dalla signora Concas di Gadoni il modus operandi de "S'Accabadora". Questa figura, che negli ultimi anni è ricomparsa nella memoria del popolo sardo in concomitanza con i fatti di cronaca legati all'eutanasia, svolgeva un compito difficile e delicato: quello di porre fine alle sofferenze e alla lunga agonia dei malati in fase terminale. Osteggiata dalla chiesa e dalla gran parte delle persone religiose, era, in realtà, protetta con il silenzio e pochi conoscevano la sua identità e i suoi modi di agire. Questa copertura è stata così efficace che, ad oggi, esistono studiosi che pensano che i racconti che fanno riferimento a S'Accabadora non siano altro che leggende mitiche o che al massimo facciano riferimento a una figura che agiva in un antico passato. In realtà numerosi sono i viaggiatori e gli studiosi stranieri, giunti in Sardegna nei secoli, e che fanno riferimento a questa figura. Questa intervista prova che in realtà, una figura di tal genere è esistita almeno fino agli anni Quaranta del secolo scorso.


mercoledì 16 novembre 2011

Cannibalismo Rituale

di Nannai

Condivido qui la tesina preparata in occasione dell'esame di Antropologia, sostenuto nel settembre del 2001.

 Cannibalismo Rituale

Il Cannibalismo è un fenomeno tanto raccapricciante quanto complesso e la sua pratica si perde nella notte dei tempi. Una cosa interessante da osservare è che esso venne praticato da moltissimi popoli in diverse parti del mondo. Infatti, fin dagli albori della storia, il genere umano ha divorato i suoi simili in una cornice di oscure cerimonie nelle quali la carne e il sangue della vittima erano consumati per acquistare certi poteri o come offerta agli dei.
Per la maggior parte degli antropologi questa pratica è ormai appurata e classificano il cannibalismo in relazione all’oggetto; si parla, così, di autocannibalismo, quando è rivolto al proprio corpo, ad esempio mangiarsi le unghie o l’interno delle guance fino all’autotortura; si ha, invece, esocannibalismo, quando ha come oggetto individui non facenti parte della comunità; e infine l’endocannibalismo, riferito al consumo di individui all’interno dello stesso gruppo.
Invece per un uomo della cosiddetta società civile, l’idea del nutrirsi dei propri simili è vista come una cosa ripugnante ed impossibile ad attuarsi. E’ difficile anche credere che siano esistiti dei popoli o delle singole persone capaci di fare ciò, eppure già lo storico greco Erodoto e altri scrittori dell’antichità descrissero alcuni popoli cannibali. Così nel Medioevo, il viaggiatore e mercante italiano, Marco Polo parlò dell’esistenza di tribù, dal Tibet all’isola di Sumatra, che praticavano l’antropofagia.
Per rintracciare l’origine del termine cannibale (con il quale oggi si intende chi si ciba di carne umana, cioè pratica l’antropofagia) bisogna risalire al XV secolo e cioè ai primi contatti tra Cristoforo Colombo e gli indigeni americani dei Caraibi.
Questi indigeni gli riferirono l’esistenza di una tribù, di nome Cariba (da cui è derivato per traslitterazione il termine canìbales passando per carib-calib-canib = canìbales ) la quale, dicevano, praticava l’antropofagia. Il termine cannibale nei resoconti dei primi viaggi in quei luoghi veniva usato per indicare alcuni gruppi di quella zona. Il termine poi acquistò una connotazione più ampia fino ad esser usato per indicare qualsiasi gruppo che si pensava mangiasse carne umana.
Se poi questi primi “cannibali” fossero realmente mangiatori d’uomini non si sa di certo. Le fonti a riguardo sono confuse. E dal momento che la fonte principale di queste affermazioni erano i membri di un popolo, gli Arawak, che indicavano come cannibali i membri dell’altro gruppo indigeno dominante della zona, i Carabi (due popoli divisi tradizionalmente da una reciproca e profonda inimicizia) rende la notizia molto poco credibile.
In Europa, comunque, i racconti di Colombo non ci misero molto ad essere accettati dato che essi andavano a convalidare idee e preconcetti che si aveva di popoli così lontani e diversi.
Dunque le considerazioni fatte sopra mettono in dubbio l’attendibilità di questi racconti. Ma la cautela di fronte a questi argomenti però non dovrebbe sfociare nel completo rifiuto dell’esistenza della pratica del cannibalismo in qualsiasi società, come vorrebbero fare alcuni studiosi come W. E. Arens. Poiché è anche vero che il cannibalismo in alcuni popoli è esistito realmente.
Per questo è meglio citare fonti più attendibili come i racconti forniteci nei suoi diari dal capitano inglese James Cook che nel XVIII secolo esplorò i mari del Sud (Pacifico e Antartico). Nel Libro di bordo parla della pratica cannibalica operata dai maori della Nuova Zelanda.

L’Antropofagia attraverso la Storia

Alcuni studiosi sembrano individuare tracce di pratiche cannibaliche anche in reperti antropologici dei predecessori del Homo sapiens sapiens. Esistono anche alcuni ritrovamenti che provano che alcuni gruppi di Homo erectus si dessero al cannibalismo. Inoltre, ci sono alcune evidenze che l’Homo antecessor vissuto più di 800.000 anni fa nella Sierra de Atapuerca (Burgos), praticasse il cannibalismo. Infatti, le ossa di questi ominidi sono state ritrovate mescolate con utensili di pietra e ossa di animali cacciati, come cervo, bisonte e rinoceronte, anche se molto probabilmente lo faceva per soddisfare l’istinto di sopravvivenza. ( fonte: Le Scienze, n° 397, Settembre 2001).
Comunque, alcuni indizi indicano l'esistenza dell'antropofagia rituale, già a aprtire dal Paleolitico, nella quale i crani umani erano usati come coppe.

Nel 1939, uno studioso italiano, il prof. Alberto Carlo Blanc, in una grotta del monte Circeo, la grotta Guattari, rinvenne un cranio umano in ottimo stato di conservazione. Il reperto si trovava in un piccolo antro appartato, quasi al centro di un gruppo di pietre, la cui disposizione apparve voluta, cioè intenzionale. Nessun'altra parte dello scheletro fu rinvenuta e il cranio presentava l'orbita destra sfondata e il foro occipitale considerevolmente allargato: un rituale necessario per consumare il cervello del morto?
Tale reperto risultò appartenere ad una stirpe vissuta in Italia e in altri paesi europei la bellezza di 70.000 anni fa, conosciuta con i nomi di Neanderthal o uomini della cultura musteriana;
Dalla larghezza insolita del foro occipitale risulta chiaramente che l’encefalo, cervello e cervelletto, vennero estratti e probabilmente consumati in un macabro banchetto. Ciò porta all’ipotesi che quel cranio fosse di un individuo dotato di grande forza e coraggio. Doti da farne un essere superiore. Perciò i sopravissuti devono aver pensato di nutrirsi del suo cervello per acquisire le virtù del defunto.
L’identificazione di tracce di cannibalismo è, comunque, uno dei compiti più difficili per gli studiosi, soprattutto per i resti paleoantropologici.
Per molti altri studiosi il cranio neandertaliano del Circeo non sarebbe un esempio di cannibalismo preistorico. Nel 1989 questi studiosi , nel corso di un congresso tenutosi nel Parco Nazionale del Circeo, fornirono le prove delle loro convinzioni. Essi basavano le loro affermazioni su evidenze raccolte da vari specialisti sia nel sito di ritrovamento, sia sul cranio stesso, con l’ausilio del microscopio elettronico a scansione, le quali rilevarono essere opera di animali carnivori, soprattutto iene.
Ma come riconoscere le tracce del cannibalismo? Elementi chiave sono particolari incisioni sulle ossa lasciate da oggetti da taglio, fratture provocate con l’intento di estrarne gli elementi nutritivi, come il midollo, bruciature che rilevano una, pur rudimentale, cottura, presenza di particolari sostanze nelle feci. I paleontologi, tuttavia, sono molto cauti. Non si può affermare con assoluta certezza che segni di resezione o colpi dati per fratturare abbiano scopi cannibalistici. Queste tracce potrebbero essere attività di scarnificazione legate, ad esempio, al culto del cranio, frequente tra i popoli antichi e osservati anche in tempi recenti in Nuova Guinea o in Papuasia.
Indizi di pratiche cannibalistiche più vicine a noi temporalmente (10.000 anni fa) ci vengono dall’antica Britannia. Ma esistono prove che anche i loro pronipoti non più di 2000 anni orsono, al tempo delle invasioni romane, si mangiavano l’un l’altro. Infatti è stata scoperta una fossa comune contenente le ossa di una quarantina di corpi. Il particolare più interessante di queste ossa è dato dal fatto che esse sono divise longitudinalmente e svuotate del midollo: un segno tangibile di cannibalismo.
Probabilmente queste persone vennero uccise come vittime sacrificali in vista di un importante battaglia. Dalle descrizioni delle guerre galliche di Cesare sappiamo che i Celti prima di un importante battaglia compivano sacrifici umani di massa. Inizialmente prendevano i prigionieri di guerra, poi i criminali, poi gli zoppi e i malati. La cosa notevole di queste ossa è che molte di esse mostrano segni di malformazioni e infermità. Questa sembrerebbe una conferma delle parole di Cesare. Una volta terminato il rito cannibalico i resti venivano gettati in una buca ( che era vista come la porta degli inferi). Sempre tra i Celti un'altra macabra usanza piuttosto diffusa era lo sbudellamento, ovvero l'estrazione delle viscere della malcapitata vittima. In entrambi i casi emerge il concetto di "utilizzo" del nemico: esso rappresenta un bene da non sprecare. Da questo si evince come il cannibalismo assume un ruolo economico in una tribù, infatti e' un'usanza diffusa soprattutto in quelle organizzazioni sociali che non avevano ancora dato un ruolo attivo all'utilizzo dei prigionieri (vedi ad esempio gli schiavi); come stretta conseguenza nascono una serie di pratiche correlate come la tortura, che vanno ad anticipare il momento del "pasto" vero e proprio. Un'altra tribù, con questi strani rituali, era quella degli Uroni, popolazione del Canada, a cui fino a due secoli fa, veniva insegnato fin da piccoli ad essere spietati e brutali con i nemici; per abituarsi a cio' i bambini erano costretti ad assistere alle terrificanti torture subite dai malcapitati avversari. Le torture inflitte erano qualcosa di incredibile, infatti alle vittime venivano bruciati gli occhi, venivano infilati nella gola e nel retto dei tizzoni ardenti, gli venivano spezzati i polsi e forate le orecchie utilizzando delle punte acuminate che gli venivano lasciate ficcate nella carne. Ognuna di queste pratiche era realizzata per poter dare il massimo del dolore lasciando la vittima in vita per il maggior tempo possibile; la sua uccisione dopo una notte di supplizi avveniva solamente all'alba con il taglio della testa. Una volta ammazzata la vittima, la tribù festeggiava per tutto il giorno con una serie di banchetti a base di carne del nemico.
Gli Uroni non erano i soli a praticare questo rito: all'inizio del XVII secolo, un marinaio tedesco di nome Hans Staden, naufragò sulla costa brasiliana e racconta di aver assistito a riti piuttosto macabri eseguiti dai Tupinamba. L’analisi attenta dei riti cannibalici di questa popolazione amazzonica probabilmente ci permette di capire qualcosa di più su questa pratica aberrante.
I Tupinamba, furono una delle prime tribù del continente sudamericano ad avere contatti con gli europei. Si tratta dei più famosi cannibali esistiti. E nonostante siano ormai estinti da più di tre secoli, le testimonianze sulle loro usanze macabre sono le più valide e documentate.
I tupinamba facevano parte di un gruppo molto più vasto, i Tupi-guaranì e sembra che fossero le uniche tra le società tupi-guaranì a praticare il cannibalismo rituale.
I resoconti descrivono una terra fertile e ricca di selvaggina e di pesce. Quindi non praticavano il cannibalismo per procacciarsi proteine nobili in modo semplice e rapido. Per capire meglio questa pratica in questo popolo dobbiamo considerare una delle loro maggiori occupazioni e, cioè, la guerra.
Lo scopo principale della guerra era procurare i prigionieri, e a questo scopo erano indette più volte all’anno incursioni nel territorio nemico. Una volta catturato un nemico questo veniva portato al villaggio , dove veniva preso ad insulti dalle donne e dai bambini. Poi dopo lo si faceva ballare insieme agli uomini e donne. Il rito sembra dovesse simboleggiare il passaggio da nemico ad amico del villaggio. L’esecuzione e la consumazione del prigioniero poteva avvenire anche vent’anni dopo la cattura come pure dopo un anno, in questo lasso di tempo comunque il prigioniero si poteva integrare completamente all’interno del villaggio, poteva prender donna ed avere figli. Ma terminato questo periodo, in cui il nemico veniva ospitato con tutti gli onori, essi cessavano di essere ospiti e tornavano ad essere nemici e quindi uccisi e mangiati. Secondo la testimonianza di Staden il prigioniero veniva preso e trascinato in una piazza piena di gente, dove veniva circondato da una serie di donne che lo ricoprivano di insulti; nel frattempo le donne più anziane, con il volto ricoperto da una tintura nera, disponevano una serie di contenitori in cui sarebbe stato raccolto il sangue della vittima. Il boia, vestito con un lungo mantello fatto di piume e armato di una pesantissima clava si avvicinava alla povera vittima per spezzargli la schiena e infine per dargli il colpo di grazia frantumandogli la testa. Il sangue ancora caldo della vittima era bevuto dalle vecchie, mentre ai ragazzini del villaggio era concessa la possibilità di bagnarsi le mani e parte del corpo.  Alle mamme del villaggio fu concessa la possibilità di bagnarsi i capezzoli affinché anche i neonati potessero gustarne il sapore, e quando il sangue fu sgorgato completamente il corpo fu equamente sezionato e cotto, sotto gli occhi bramanti di carne umana degli abitanti del villaggio che già ne pregustavano il sapore.
Le spiegazioni che fornivano i Tupinamba del cannibalismo era che lo facevano unicamente per vendicarsi dei mali da loro subiti ad opera del nemico. Questi riti dunque servivano per vendicarsi di tutta una serie di mali dei quali i nemici potevano essere accusati e nel frattempo i Tupinamba potevano accedere al loro paradiso, la Terra senza Male. In questo luogo erano ammessi, infatti, solo chi era stato capace di vendicare il loro popolo contro il nemico.
Eventi come quello sopra riportato non dovevano essere per l'epoca un evento straordinario, erano molte le testimonianze a riguardo, e ai vari riti si susseguivano sempre una serie di regole da rispettare; c'è da dire però che spesso ai banchetti veri e propri partecipavano le classi sociali più privilegiate, mentre a quelle inferiori veniva concesso "l'onore" di assistere alla fase preparatoria.


Le ragioni del cannibalismo

Le ragioni del cannibalismo in così diversi popoli semnbrano complesse da spiegare.

Ricercatori, come Loeb, affermano che nei popoli più primitivi la carne umana sostituiva la mancanza di altri cibi. Anche se sembra che nella maggior parte dei popoli più evoluti questo macabro banchetto avesse un significato di rituale magico.
In Sudamerica ci sono prove dell'esistenza di un cannibalismo tanto gastronomico che rituale. L'importanza di questo tipo di banchetti si trova nel fatto che contribuiva a rinsaldare  i rapporti tra i partecipanti. Nella valle del Cauca (Colombia) il cannibalismo non aveva connotazioni religiose e questa pratica, stranamente, si estese in zone dove c'era abbondanza di alimenti animali e vegetali (cereali come il mais). Secondo diversi ricercatori, come Gonzàles Torres, il cannibalismo si diffuse in molte aree solo per il mero gusto di consumare carne umana.
In Australia, invece, la questione è molto differente in quanto, qui, le condizioni di estrema scarsezza di alimenti, diedero luogo a frequenti casi di endocannibalismo; nel quale le madri consumavano insieme ai loro figli il neonato che avevano appena dato alla luce.

Ma nella maggior parte dei casi il cannibalismo spesso si associava a riti religiosi; è il caso degli Atzechi cultori del Dio Huitzilopochli. Nel giro di due secoli questa popolazione riuscì a creare un grande impero, sviluppando una grandiosa civiltà che finì però distrutta dai "conquistadores". Fu proprio uno di questi gruppi di predatori, in particolare quello al comando di Cortès, a documentarci sugli usi e costumi della popolazione, che basava la propria vita su una religione catastrofista. Per gli Atzechi, tutto il mondo era periodicamente distrutto e rigenerato da un dio che ridava vita alle ossa dei defunti con il sangue, ed era questo il tipo di offerta che richiedeva, oltre alla carne umana, naturalmente. Gli Atzechi sono anche l'esempio che viene usato da due studiosi moderni a sostegno delle loro interpretezioni.
Da una parte abbiamo Marvin Harris che sostiene che la pratica del cannibalismo avveniva tra gli Atzechi perchè rappresentava una fonte di alimentazione in una zona in cui gli approvviginamenti erano scarsi. E a supporto delle sue affermazioni ci sono le ricostruzioni pervenuteci tramite le innumerevoli testimonianze, dalle quali si è ricavato che gli Atzechi facevano utilizzo delle varie parti del corpo delle vittime paragonabile al nostro conumo odierno degli animali domestici.
Questo può portarci a credere che una delle motivazioni più valide sia da attribuire alla necessità di arricchire la propria dieta con preziose proteine appartenenti al mondo animale, nel modno sicuramente più facile e veloce. La difficoltà in quel periodo a procurarsi della cacciagione, anche in Europa, portava a lunghi periodi di carestie che favorivano in alcuni casi episodi più o meno ripetuti di antropofagia per prolungare la propria sopravvivenza. A sostegno di questa ipotesi si potrebbe riportare il cado della tribù Fore, abitante gli altopiani boscosi della Nuova Papua Guinea. I guinani praticano l'agricoltura da più di 7000 anni e coltivano specie locali (ma mancano del tutto i cereali) che sono però povere di calorie perchè crescono stentantamente ad elevate altitudini. Gli animali di grossa taglia si sono estinti tutti intorno al 12.000 a. C. e la caccia si basa su piccoli uccelli tra l'altro difficili da catturare tra le fronde degli alberi. Queste condizioni secondo gli studiosi sarebbero state le motivazioni della nascita del cannibalismo tra questi popoli, e cioè la ricerca di proteine animali. Infatti da quando la NUova Guinea è passata sotto il protettorato australiano, le autorità australiane hanno fatto uno sforzo notevole per sradicare il cannibalismo dalle usanze di questi popoli, ma da quando esso è scomparso gli agricoltori degli altipiani soffrono di gravi carenze alimentari perchè i vegetali da loro coltivati (il taro e la patata dolce) sono poveri di proteine. I bambini guineani dell'interno hanno l'addome gonfio e le membra scheletrichetipico di chi mangia molti carboidrati ma poche proteine e questi sono anche i sintomi tipici di quella malattia dell'alimentazione chiamata Kwashiorkor. Quindi in ultima analisi, la costatne ricerce di proteine è probabilmente la causa della sistematica diffusione del cannibalismo nella zona.

Tornando alla disputa sulla spiegazione dell'antropofagia di parere diverso a quello di Marvin Harris è invece Marshall Sahlins, il quale sostiene che l'aspetto alimentare dle sacvrificio umana atzeco era di modesta importanza, e che più imporanti erano gli aspetti sacro-religiosi che creavano una serie di riti molto complessi e articolati. In questa interpretazione ma soprattutto nelle ritualizzazioni degli atzechi si può osservare nel sacrificio umano da loro praticato un rimasuglio dei riti di culture più primitive nelle quali il sacrificio umano era visto come un rito tendente a conseguire un fine. Si trattava di un azione simbolica mediante la quale si credeva di poter intervenire nel mondo del sopranaturale. Si pensava che il sacrificio di un uomo avesse come risultato che la vittima abbandonasse questo mondo ed entrasse in uno stadio intermedio tra il mondo reale e quello sopranaturale. Uccidendo la vittima con metodi cruenti, seguendo un rituale, i sacrificatori pensavano che si liberasse un energia, da non confondere con il concetto di anima, capac di intercedere tra gli dei e gli uomini per ottenere benefici perosnali o per la comunità. Mentre il consumo del corpo sarebbe solo un modo per evitare che l'anima tornasse sulla terra per compere la sua vendetta.

Secondo James Frazer per un uomo primitivo i motivi del pasto mistico sono, invece, molto semplici. Egli è infatti convinto che mangiando la carne dell'uomo ne assimili le caratteristiche non solo fisiche ma soprattutto morali e intellettuali. Quindi nelle popolazioni più primitive, ma dedite alla guerra tribale, dove ancora non si era sviluppato il concetto di schiavitù, si osservava un uso del nemico prigioniero come intercessore degli uomini con gli dei. Nelle società più evolute le stesse motivazioni si sono arrichite di rituali complessi e lunghi ma essenzialmente il motivo finale era sempre lo stesso. Comunque, anche questa interpretazione è valida per spiegare il cannibalismo in alcune ma non in tutte le culture.


Bibliografia

- Gregory Smyth -Il Cannibalismo. Due esempi amazzonici.- Loescher Editore Torino 1983

- Jared Diamond - Armi, Acciaio e malattie,  Einaudi Editore 2000

- Le Scienze, n° 397, Settembre 2001

- Marvin Harris - Antropologia Culturale,  2 edizione, Zanichelli

- William H. Prescott – La conquista del Messico – Newton & Compton Editore Ottobre 1997

-James Frazer – Il Ramo d’oro - Newton & Compton Editore Settembre 1999

venerdì 4 novembre 2011

Gobekli Tepe, un tempio dell'Eden?

Gobekli Tepe:‭ ‬Il primo insediamento umano della Storia‭? 

di Nannai


Per lungo tempo gli archeologi erano convinti che l'insediamento più antico della storia si trovasse nella pianura di Konya, nell'altopiano anatolico, e che coincidesse con i resti della città neolitica di Catal Huyuk, la cui economia si fondava su una fiorente agricoltura. Poi, nel 1907, iniziarono gli scavi  nella depressione del Mar Morto, ad ovest del Giordano, che portarono alla luce le rovine dell'antica città di Gerico. Nota per un importante passo biblico (Giosuè 6:16-27), datato dagli storici al 1450 a.C., in cui viene raccontato che Giosuè riuscì a buttar giù le sue mura e a conquistare la città grazie ad un provvidenziale aiuto. Ma i resti più antichi della città di Gerico in realtà datano a molto tempo prima.  Risalgono, infatti al X millennio e su queste rovine si sviluppò una cultura proto-urbana, che ancora non usava la ceramica. Esiste, però, un altro insediamento umano ancor più antico di queste città, anch'esso situato in Anatolia, ma più a sud, nelle regioni montuose che confinano con la Siria, nella parte settentrionale di quella regione che viene chiamata Mesopotamia. 
Questo insediamento non solo è più antico di Gerico e di Catal Huyuk ma è persino anteriore a Stonehenge di ben 6.000 anni. Questo è Gobekli Tepe che è riuscito fin dalla sua scoperta a rovesciare la visione convenzionale della nascita della civiltà, non solo per la sua datazione, di 12.000 anni, ma anche per la sua natura di primo insediamento a carattere cultuale. Si tratta infatti di un'importantissimo insediamento religioso dell'età neolitica, con importantissime raffigurazioni a bassorilievo.
Inizialmente ritenuto un cimitero monumentale del medioevo islamico, gli scavi che riportarono alla luce questo imponente tempio neolitico iniziarono nel 1994 ad opera dell'archeologo tedesco Klaus Schmidt, giuntovi in seguito alle pressioni della sovraintendenza locale che raccoglieva prove di un sito archeologico per la continua scoperta di reperti archeologici.


 

Gli elementi più caratteristici del tempio sono sicuramente gli alti pilastri a forma di T, separati l'un l'altro da muretti a secco in pietra e che costituiscono i confini di edifici a cerchi concentrici. I pilastri trovati in questo sito non sono un eccezione, già altri furono rinvenuti in siti vicini, ma mai in così gran numero. Invece eccezionali sono i bassorilievi e gli altorilievi su di loro incisi. Questi raffigurano ogni sorta di animale che doveva abitare le fertili pianure tutto intorno alla collina di Gobekli Tepe. Abbondano raffigurazioni di animali da selvaggina, anatre, ibis, gru ed altri uccelli, e poi vi sono raffigurati tori ed animali predatori come volpi, leoni, cinghiali. Ed ancora tantissimi avvoltoi, così tanti che questo fatto ha spinto alcuni studiosi ad ipotizzare che in quel luogo vi fosse una specie di culto degli avvoltoi. Dal momento che questi uccelli avevano la sgradevole funzione di nutrirsi dei morti che venivano posti all'aperto proprio per venir spolpati, prima di venir deposti nelle sepolture a loro dedicate. Quindi questi uccelli necrofori dovevano essere visti con un aurea divina. Essi risultavano essere il tramite tra il mondo terreno e il cielo. Questa teoria portata avanti dall'archeologo francese Danielle Stordeur è stata scartata dallo stesso Schmidt che ritiene che quelle figure di avvoltoi antropomorfi non siano altro che delle raffigurazioni di sciamani. Schmidt comunque ritiene che questo sito avesse un importante ruolo nel culto dei morti, in particolare in quel culto chiamato degli Antenati, che sembra fosse molto diffuso nel neolitico. Schmidt scarta anche l'ipotesi che i pilastri possano raffigurare figure maschili e femminili e quindi qualsiasi collegamento con il culto della Dea Madre. Comunque, dare un giudizio definitivo di quali culti vi si officiassero sembra ancora prematuro. Ancora molto c'è da scavare e le scoperte future potrebbero aiutare ad avere delle idee più precise su questo sito.
Gobekli Tepe risulta straordinario anche per il fatto che un insediamento di questo tipo, di così grande estensione e con così massicci monumenti non potesse venir eretto dai frequentatori di quella regione, in quanto si è sempre pensato che i raccoglitori-cacciatori del Neolitico non potessero avere quel surplus di cibo che permetteva loro di mantenere tutte le persone necessarie per la sua realizzazione.
Il fascino e il misticismo di questo antico insediamento aumenta se pensiamo che il sito sorge in quella regione in cui  gli antichi documenti sumero-accadici e la Bibbia localizzavano il mitico Eden o l'E.DIN. Lo pensa anche il suo scopritore, Schmidt: "Questo posto era il sito del biblico giardino di Eden. Gobekli tepe è un tempio dell'Eden". Qui i primi uomini dell'età della nuova pietra potevano nutrirsi con la raccolta della frutta degli alberi, la caccia e la pesca nei fiumi e trascorrere il resto del tempo in attività piacevoli. Poi tutto si trasformò. Ci fu la scoperta dell'agricoltura e in questo caso per ottenere il cibo era necessario lavorare duro in modo incessante  e quotidianamente. Questa transizione la si può osservare negli scheletri dlel'epoca. I numeri dei nati crebbe ma i piccoli erano più deboli ed esili, perchè il corpo umano si doveva adattare ad una dieta più povera di proteine e ad uno stile di vita più faticoso. Un altro esempio di questo passaggio è il mutamento dell'ambiente circostante alla collina di Gobekli Tepe. Un tempo al momento della sua costruzione quella regione doveva essere verde e florida, abitata da tutti quegli animali che sono raffigurati nel tempio, ma poi il passaggio all'agricoltura ha trasformato l'ambiente rendendolo sempre più brullo e poi, quando ormai impoverito, venne abbandonato. L'abbandono finì la trasformazione in quel deserto che ora è quella regione.
Secondo Schmidt la probabile causa di questo mutamento  fu proprio la costruzione del tempio: "Per costruire un posto come questo, i cacciatori devono essersi riuniti in gran numero. Dopo avere finito l'edificio, probabilmente rimasero riuniti per il culto. Ma poi scoprirono che non potevano alimentare tante persone con una regolare attività di caccia e raccolta. Penso, quindi, che abbiano iniziato la coltivazione di erbe selvatiche sulle colline. La religione spinse la gente ad adottare l'agricoltura."
Uno scenario di questo tipo non sembra inverosimile in quanto è ciò che è successo in tante altre occasioni di sfruttamento delle risorse di un luogo da parte dell'uomo. Ciò che è importante sottolineare è che questo errore fosse commesso fin dagli albori da parte della civiltà umana. Da allora l'uomo ha reiterato il misfatto senza imparare dalle sue azioni.
Bibliografia

Andrew Curry, Photographs by Berthold Steinhilber‭- Gobekli Tepe: The World’s First Temple? - Smithsonian magazine,‭ ‬November‭ ‬2008

Paolo Battistel - La Civiltà Perduta di Gobekli Tepe - Runa Bianca n°3, Settembre 2011

Wikipedia - Gobekli Tepe

Lino Bottaro - Gobekli Tepe, l'incredibile sito archeologico in Kurdistan di 12.000 anni fa.


martedì 23 agosto 2011

Le Erbe del Solstizio d'Estate

Evento organizzato dall'Associazione "L'Isola delle Janas" con il proposito di far riemergere ed evitare di perdere le vecchie pratiche di cura che costituivano parte degli antichi saperi del popolo sardo. Detentrici di questi saperi erano in particolar modo le donne che insieme alle conoscenze dell'agricoltura possedevano i segreti delle erbe medicinali.
Hanno partecipato:
Valentina Lisci, in veste di coordinatrice
- Giampaolo Marcialis, Giornalista, “L’eredità della tradizione erboristica nei saperi femminili”
- Annalisa Cuccui, Dott.ssa di Ricerca Ambientale, “Antiche conoscenze fitoterapiche delle contadine in Sardegna”. Autrice del libro "S'Arremediu Antigu"
- Simone Congia, Tecnologo Alimentare, “Le erbe del solstizio d’estate tra leggende e tradizioni”

domenica 21 agosto 2011

Gli Elohim della Bibbia: le scoperte di Mauro Biglino

Lungo la strada che ci porta a ripercorrere la storia antica in cerca della Verità visitando i resti di antichi luoghi e leggendo i polverosi testi che hanno inciso profondamente nella nostra cultura e nel nostro sapere non potevamo giungere a consultare quella che è nota come "Bibbia", in particolare l'Antico Testamento. Redatto come raccolta degli antichi saperi dei patriarchi ebrei e delle disposizioni divine di esseri noti come Elohim, l'Antico Testamento appare essere un insieme di racconti di incontri e di istruzioni per soddisfare le brame di quello che viene chiamato alcune volte Yahweh (o secondo il Tetragramma sacro YHWH), mescolati insieme con le vicende storiche di quello che era un popolo nomade e dedito alla pastorizia. I racconti ebrei vengono messi per iscritto precocemente rispetto ad altri popoli che si erano affidati per più lungo tempo alla solida memoria dei raccontastorie, degli aedi e dei cantori. Sembrerebbe che la prima stesura della Torah, cioè di quelli che sono i primi cinque libri della legge, fosse avvenuta nel 586 a.C.,dopo la cattività del popolo ebreo a Babilonia, da parte di sacerdoti appartenenti alla famiglia dei Leviti. Non si sa con certezza quale lingua fosse stata utilizzata, sicuramente no l'ebraico ancora da lì a formarsi, probabilmente una forma di aramaico arcaico anche se è possibile che dopo la lunga cattività in una terra cosmopolita come era Babilonia (BAB ILANI, "la porta degli dei") in quel periodo la lingua usata per scrivere quei primi testi fosse una qualche forma di akkadico.
La Bibbia così come noi la conosciamo è quella redatta nella koinè greca del tempo per volere del sovrano d'Egitto Tolomeo II Filadelfo che voleva inserire i testi del popolo ebraico nell'antica biblioteca di Alessandria. Questa versione nota con il nome latino di Septuaginta o LXX perchè alla richiesta del sovrano il sommo sacerdote di Gerusalemme Eleazaro rispose inviando 6 scribi per ognuna delle dodici tribu di Israele.
Della bibbia si è detto molto. Alcuni di essa hanno detto che non se ne può scoprire il vero significato se non usando delle interpretazioni di lettura la cui chiave si trova nascosta all'interno dello stesso testo che un tempo appariva unito insieme, senza punteggiatura e privo di vocali. Tre sono i livelli di lettura: quello testuale, quello che nasce dalle immagini e per ultimo il più difficile che deriva dalla sostituzione delle lettere con il loro valore numerico, cioè secondo il metodo noto come ghematria.
Ma qui voglio riportarvi l'interpretazione dello studioso Mauro Biglino. Traduttore di professione di ebraico antico che si è dedicato alla traduzione e traslitterazione dell'Antico Testamento. Le sue traduzioni sono giunte a cogliere l'interesse delle Ed. San Paolo che ha portato alla nascita di una collaborazione. E' nata così la traduzione di 23 libri dell'Antico Testamento direttamente dalla Bibbia ebraica redatta sulla base del Codice masoretico di Leningrado. Di questi 23 libri, al momento, ne sono stati pubblicati solo 17.
Durante la traduzione letterale dell'opera lo studioso si è accorto che molto delle traduzioni ufficiali non corrispondevano a quanto scritto nel testo. Così ha voluto raggruppare le traduzioni letterali fatte da lui stesso riportando fedelmente il significato con il testo ebraico a fronte e la traslitterazione nel suo libro "Il Libro che Cambierà per sempre le nostre idee sulla Bibbia.". Come afferma lo stesso autore: "Partendo dall'Antico Testamento queste pagine raccontano ciò che non è stato raccontato, e lo fanno con un operazione molto semplice: scrivere esattamente ciò che narra il testo biblico letto nei codici ebraici più antichi."

Ed ancora in un intervista rilasciata a ItaliaParallela dice che quanto si scopre dalle letture del testo è che:

"Innanzitutto gli dèi sono il frutto delle rielaborazione teologica di figure che erano in realtà individui in carne ed ossa che si distinguevano dall’uomo per capacità, conoscenze e tecnologia: una volta perso il contatto fisico l’uomo ne ha ripensato l’immagine spiritualizzandola.
Va detto che nella Bibbia gli Elohìm non venivano considerati ‘dèi’ nel senso che noi diamo a questo termine e tanto meno erano visti come un ‘dio’ unico, spirituale, trascendente ed universale. Nel nuovo libro dedico un intero capitolo a spiegare come nell’Antico Testamento, contrariamente a ciò che si pensa, non esistesse il concetto del monoteismo.
I profeti erano i portavoce, i rappresentanti di questi individui presso i popoli: era un compito prima affidato ai Malachìm, erroneamente descritti come angeli dalla tradizione religiosa. Il nostro mondo attuale è stracolmo di profeti che si pongono come detentori della verità e come rappresentanti delle nuove forme di “divinità” che l’uomo continuamente si crea per cercare risposte alle sue angosce, prima fra tutte quella della morte. Mi viene da dire che quelli antichi erano decisamente più seri perché quanto meno parlavano in nome e per conto di “individui” realmente esistenti."
Affermazioni queste che ricordano quelle di un altro interessante e dotto traduttore di ebreo e sumero, il famoso sumerologo Zecharia Sitchin. Per completare questa introduzione all'opera di Biglino voglio lasciarvi questo video dove lui stesso provvederà  a raccontarvi le sue scoperte.

lunedì 18 luglio 2011

Gli Archetipi della Geometria Sacra (tr. Nannai)

di Charles Gilchrist


Il Punto


Il Singolo Punto è il primo archetipo della Geometria Sacra.
Il Singolo Punto è l'assoluto concetto mentale di base. Esso è direttamente collegato alla Coscienza Unitaria o Uno...la Mente di Dio Indivisa.
Il Singolo Punto è letteralmente la Prima Dimensione...il centro omnipresente -omnipotente. La Singola Unificazione è la radice di tutto il pensiero olistico..Il Tutto è Uno.
La Singola Unificazione (l'Uno) è ciò che è oltre la Dualità.

I Due Punti
L'Universo a due dimensioni   inizia con la divisione del Singolo Punto. Il grande e profondo mistero della Geometria Sacra. Il Singolo Punto magicamente si divide e diventa due. I due Punti. L'Universo è creato dalla divisione: l'Unità diventa Dualità. Questo è il grande miracolo e mistero.
Improvvidamente, il Punto A è qui e il punto B è lì.
La seconda dimensione letteralmente inizia a questo  concettuale: i due punti.
Questi due punti, questa prima dualità marca la prima relazione architetturale dell'Universo creando simultaneamente la prima astratta unità di misura, ad es. lo spazio.


Il Raggio/Arco

Le tremende energie contenute dentro queste prime due relazioni dimensionali dell'Universo (I due punti) si manifesta come una dualità di movimento: linea di moto rettilineo (dal Punto A al Punto B) e il movimento rotazionale (il punto B intorno al punto A).


Questo movimento duale è chiamato il Raggio/Arco.E' il movimento base, il Big bang concettuale.
Tutte le varie energie dell'Universo tracciano il gioc tra il Raggio e l'Arco.
Il Raggio/Arco è lo Yin e lo Yang. La Luce e L'Oscurità...La Sinistra e la Destra...l'Est e l'Ovest...Il Sopra e il Sotto...la Madre e il Padre...ecc.
Tutto...le manifestazioni della dualità tracciano il Raggio/Arco.

Il Cerchio



 La relazione senza tempo contiene sempre dentro il Raggio/Arco (espresso scientificamente come Pi greco) e la formula matematica di base e si sviluppa visivamente a diventare la prima forma chiusa della Geometria sacra, il Cerchio.
Il Cerchio è l'unità....l'Uno.
Il Cerchio è la manifestazione a due dimensioni della singola unificazione ...la Mente di Dio indivisa.
Il Cerchio è il Tutto. C'è l'essenza del Mandala: il Cerchio contiene Tutto.
Definizione: p greco è il rapporto della circoferenza con il suo diametro. Il pi greco è un numero trascendentale o cosiddetto irrazionale che ha il valore di 3,141559. Per propositi pratici il valore del pi greco è arrotondato a 3,14,16.

Due Cerchi di Comune Raggio

Come abbiamao visto, la prima figura (il Cerchio) è creato dalla rotazione del Punto B intorno al Punto A.
Ma i due Punti sono perfette coppie di uguali potenzialità, e il Punto A può anche ruotare intorno al Punto B, usando il raggio originale.



 Questa polarità naturale, questa inversione di ruoli produce un altro cerchio. Questi due cerchi creano la prima forma di sovrapposizione della Geometria Sacra intitolata i Due Cerchi di Comune Raggio.


La Vesica Piscis

Questi due cerchi sovrapposti, con raggio comune, creano la seconda forma chiusa della Geometria Sacra. Gli antichi chiamavano questo archetipo la Vescica Piscis.

 Tutte le forme, letteralmente tutte le forme dimensionali di questo cosmo evolvono da questo archetipo che ha forma di un pallone da rugby.
La Vesica Piscis è letteralmente il grembo dell'Universo, la sempre dispiegante madre della Geometria Sacra.

Due nuovi punti C e D


In aggiunta alla Vesica Piscis i due cerchi di raggio comune creano due nuovi punti alla loro intersezione (C & D).

Il giodo di padre/madre (il punto A e il punto B) creano i primi figlidell'Universo: i gemelli (punto C e D). E la magnificazione continua....

Quattro Cerchi di Comue Raggio

Quattro nuovi punti (E, F, G e H) si formano facendo ruotare i primi due punti (A e B) intorno a questi nuovi punti (C & D) si creano così due cerchi aggiuntivi e quattro nuove vesica piscis.
Ora, abbiamo quattro cerchi di raggio comune e cinque vesica piscis.
I due nuovi cerchi creano anche quattro nuovi punti e un altra forma chiusa della Geometria Sacra che chiamiamo il Petalo (la forma bianca al centro).
Quattro cerchi di raggio comune è l'essenza della famiglia rivelata nella Geometria Sacra : genitori (cerchi 1 e 2) e figli (cerchi 3 e 4 ), il cuore della famiglia nella forma di un petalo.
Quattro cerchi di comune raggio è la forma germinale del modello della Creazione: tutte le forme necessarie sono in luogo. Tracciando nuovi cerchi intorno ai nuovi punti (E, F, G, e H) compone la forma e crea la possibilità di una griglia senza fine di punti, cerchi, vesica piscis e petali chiamata il Primo Modello della Natura.

I Primi due Cerchi nel Primo Modello della Natura.

Il modello primo della Natura è il modello della Creazione. Letteralmente tutte le forme tracciano a questo modello, inclusi il "Germe della Vita" il "Seme della Vita", il "Fiore della Vita" e il "Frutto della Vita". Il modello primo della Natura è il sempre evolvente modello a due dimensioni che a livello conettuale circumnaviga l'Universo.



Esiste un infinito numero di sub-modelli e forme da scoprire all'interno del modello primo della Natura e lo studio di queste forme è senza possibilità di limite. E' la chiave alla Geometria Sacra.
Fonte : The First Archetypes of Sacred Geometry




giovedì 14 luglio 2011

Destini che non si incrociano

Ripropongo qui una vecchia poesia a me molto cara, perchè legata ad eventi che hanno inciso  profondamente su di me.E' stata scritta e composta il 07 settembre del 2009, ma essa si riferisce ad eventi accaduti due mesi prima e che oggi quasi come commemorazione a due anni esatti pubblico qui.



Mi chiedi perché i nostri destini, non più così di frequente si incrociano, mia divina!

A quale divinità malevola possiamo imputare la colpa?

A Nannai che tempestoso attraversa i cieli notturni?

Ad una divinità beffarda che dell’inganno gioisce?

Oppure al semplice volere umano

che mi spinge, alla sera, ad attraversare le deserte strade della Sardegna?

Mi fermo ai bordi di un bosco

la luna piena rischiara la notte

ed attendo che dal sottobosco escano le janas.

Ma loro non si presentano!

Ed, allora, verso sud mi dirigo

e sulle spiagge meridionali della Sardegna mi siedo

in attesa che dalle acque marine esca fuori una Ninfa del Mare.

Ma solo normali donne umane io incontro

e tutte loro io ignoro.

Ed, allora, sulle rocce del bordo di un ruscello mi siedo in attesa di una Ninfa dell’Acqua.

Ma anch’essa non compare.

Forse di questo mondo esse non sono?

Forse appartengono ad un'altra dimensione?

Così nelle feste di paese io vado

ed in mezzo alla gente mi ritrovo

e tra loro io cerco quella donna

che per cinque volte  ho sognato

e l’ultima volta mi teneva tra le sue braccia

e sul suo petto mi faceva posare la mia testa.

E consolandomi mi asciugava le lacrime

e con  le sue parole è stata capace di rompere l’incantesimo.

Ma anch’essa io non trovo.

Forse anche lei, così leggiadra ed incantevole, non fa parte di questo mondo?

Di un'altra dimensione anch’essa è?

Ma per lei il balzo  lo faccio!

Ma per lei il salto in quella dimensione io lo faccio….

giovedì 16 giugno 2011

Gli Oli Essenziali dalle Piante Aromatiche (Nannai, 13 giugno 2011)

di Nannai

Alambicco trovato nel 2007 a Pyrgos (Creta)
La primavera rappresenta per il naturalista, l'escursionista o per il semplice appassionato di natura il momento migliore per violare i segreti delle piante. Si tratta del periodo dell'anno migliore per osservarle. Infatti, le piante, dopo la lunga quiescenza invernale, si preparano al loro compito più importante, quello della riproduzione. Ed è, in questo momento, che mettono in campo tutte le strategie per favorirla, innescando quelle simbiosi con insetti e microrganismi del suolo che si sono andate perfezionando nei milioni di anni della loro esistenza. Aiutate dalle prime piogge primaverili e dall'aumento della temperatura e delle ore di luce, il loro sviluppo vegetativo risulta essere, anche all'occhio abituato del naturalista, impressionante.
I fiori e le giovani foglioline secernono tutta una serie di composti volatili ed eterei, come alcoli, terpeni ed aldeidi che vanno ad attirare gli insetti impollinatori. Altri composti servono, invece, per allontanare gli insetti nocivi che danneggerebbero il delicato apparato riproduttore della pianta.
Queste essenze volatili, e di natura molto varia, si ritrovano in abbondanza nelle piante aromatiche. E vista la natura sgargiante dei loro fiori colorati e il profumo intenso da esse emanato non potevano, di certo, passare inosservate all'occhio dell'uomo.
L'interesse dell'uomo per le piante aromatiche si perde con l'inizio stesso della storia umana. Forse, le prime osservazioni delle loro capacità medicinali avvennero quando i primi uomini bruciarono i loro legni ricchi di essenze e di resine profumate in ambienti chiusi. Questi uomini avevano notato che alcune di queste piante emanavano un odore gradevole; altre, invece, erano capaci di avere un potere su di loro: aprivano il respiro, avevano effetti stimolanti e rilassanti. Gradualmente, questi effetti furono studiati da uomini particolari che divennero i custodi dei segreti e delle proprietà di queste piante. Il loro uso medicinale andò sempre più fondendosi con un uso rituale e spirituale. I custodi di questi segreti furono gli uomini di medicina o sciamani che accompagnavano i riti di guarigione del malato con il bruciare su dei bracieri le polveri delle piante aromatiche. Il fumo che si innalzava verso il cielo dai bracieri aveva come significato l'invocazione degli spiriti benigli o la scacciata di quelli maligni dal paziente.
Dalle tavolette cuneiformi sumere, trovate in quelle terre che un tempo erano note con il nome di Mesopotamia, veniamo a sapere che i sumeri usavano il papavero, la mirra, l'essenza di rosa, di pino e di sesamo immerse nella forte birra del tempo per la cura del mal di testa. Di queste ricette le tavolette cuneiformi ne sono piene.
Ma i primi ad estrarre gli oli essenziali dalle piante aromatiche furono gli egizi. I sacerdoti egizi erano molto abili ed esperti nell'arte della distillazione, dell'estrazione delle essenze e nelle preparazioni aromatiche. I laboratori per l'estrazione delle essenze sorgevano sempre in vicinanza dei templi, perchè anche in egitto la pratica medicinale si confondeva ancora con la religione.
Anche se è probabile che la loro fosse semplicemente una idrodistillazione, furono, comunque loro, i primi a trattare le piante ed ottenerne gli oli essenziali.
Altrettanto antiche sono le notizie di distillazioni nel mondo acheo e del mediterraneo orientale. Risale al 2007 il ritrovamento di alcuni alambicchi in terracotta provenienti da Pyrgos (Cipro), datati intorno al 1850 a.C. . Essi rappresentano a tutti gli effetti i più antichi reperti archeologici di questo tipo.
Rosa centifolia
Ma per avere una prima notizia dell'utilizzo della metodica dell'estrazione degli oli essenziali secondo il metodo più efficiente e qualitativamente migliore e ampiamente usato oggi dobbiamo aspettare il medico, filosofo e matematico persiano, Avicenna. A lui si deve la scoperta, o, comuque, la messa a punto della serpentina per il raffreddamento delle acque di distillazione, la condensazione del distillato e la successiva separazione delle acque aromatiche dagli oli essenziali. Nei suoi primi esperimenti utilizzò la rosa damascena e la rosa centifolia (immagine a lato), molto apprezzata in oriente.
I suoi studi e le sue osservazioni giunsero in Europa grazie all'altrettanto famosa Scuola Medica Salernitana.
Parallelamente, le conoscenze delle erbe venivano conservate e promosse nelle officine e nei laboratori erboristici delle certose e dei monasteri di tutta Europa.


Estrarre gli Oli Essenziali.

Nella pratica dell'estrazione degli oli essenziali è necessario rispettare delle piccole regole che molto spesso si apprendono con l'esperienza. Molto importanti sono il tempo di raccolta. Non tutti i momenti dell'anno sono propizi per ottenere la migliore resa e la qualità migliore dell'olio. Quindi l'aromaterapeuta deve essere una persona paziente e capace di attendere il periodo dell'anno migliore per la raccolta delle sue preziose piante essenzifere. Due sono i tempi che deve attendere: il tempo balsamico e l'ora balsamica.
Liber de Arti Distillandi de Compositis, di Brunschwig,1512

Il tempo balsamico è il periodo dell'anno in cui la pianta aromatica presenta la più alta concentrazione di principi attivi e quindi più alta sarà la sua resa. Questo tempo varia da specie a specie ed in genere coincide con la massima fioritura.
L'ora balsamica invece è un tempo giornaliero e corrisponde al momento del giorno in cui si ha la maggiore presenza in percentuale di olio nella pianta. Questo momento coincide con le ore più calde della giornata.
Un altra osservazione che l'attento distillatore di oli essenziali può fare è scoprire popolazioni di piante che hanno una resa superiore rispetto ad altre. Questo in genere dipende dalla localizzazione del sito. Se questo è ben esposto al sole, se si trova ad una certa altitudine dal livello del mare e se le piante non devono competere con altre per i nutrienti o per la luce del sole. Queste osservazioni hanno una grande importanza per una corretta estrazione degli oli essenziali. Infatti, è su di esse che si basa la separazione di uno o più chemiotipi. Trovare una popolazione di piante aromatiche spontanee che presentano una percentuale maggiore di uno o degl'altri componenti può essere importante per la valorizzazione dell'olio estratto e per le proprietà curative, nonchè per il suo valore economico sul mercato.
Dopo la raccolta, la fase successiva è la distillazione. Il campione raccolto in genere si distilla in giornata, preferibilmente la sera stessa della raccolta.
Esistono diverse metodiche di estrazione degli oli essenziali. Anche se la distillazione in corrente di vapore è quella più ampiamente utilizzata, a volte essa risulta essere non sempre la scelta migliore da usare. Quindi per il nostro scopo, sarà utile fornire un breve elenco delle metodiche più utilizzate. Si deve, comunque, subito sottolineare che ogni metodo estrae una serie di sostanze leggermente differenti e questo ha come prima conseguenza una diversificazione della qualità e della quantità del materiale ottenuto.
La spremitura a freddo è generalmente utilizzata per l'estrazione degli oli essenziali degli agrumi contenuti nella buccia. Si tratta di un metodo meccanico che si differenzia dagli altri metodi in quanto utilizzano uno o più solventi, in genere l'acqua ma non è raro che venga usato anche etanolo, etere o cloroformio. In questi ultimi casi si ha la cosidetta estrazione con solventi. In questo tipo di estrazione il materiale aromatico viene immerso nel solvente. Questo metodo ha un vantaggio in quanto mantiene la fragranza fedele all'originale. Il materiale che si ottiene, chiamato essenza concreta, è un solido opaco costituito dal 50% di cera e da 50% di olio volatile. La separazione avviene usando un secondo solvente facilmente eliminabile, l'alcool.
Un altro metodo, molto antico, è l'enfleurage. E' un metodo che viene impiegato per fiori preziosi come gelsomino, rosa e tuberosa. Consiste nel lasciare macerare nell'olio o nel grassso i fiori appena colti. E' un metodo che fornisce un profumo fedelissimo all'originale ed è apprezzatissimo ma richiede tanta pazienza ed è molto oneroso.
Il metodo più usato è comunque la distillazione in corrente di vapore in cui il materiale aromatico viene attraversato dal vapor acqueo caldo proveniente da una caldaia separata.

Schema della Distillazione in Corrente di Vapore

Il vapore caldo entrando in contatto con il materiale vegetale lo distende aumentando la permeabilità delle membrane e rompendo le cellule che contengono le essenze, le quali si liberano così nel vapore. Il vapor acqueo e l'olio essenziale arriva poi alla serpentina refrigerata che permette alla miscela di ricondesarsi ed andare a finire nel vaso fiorentino che funziona da vaso separatore in cui l'olio si separa per densità dall'acqua. L'acqua viene raccolta e conservata in quanto contiene tutti quei preziosi composti che sono idrosolubili e che vanno a formare quella miscela nota come acqua aromatica. Ben note sono le acque aromatiche di rosa e quella degli angeli ottenuta dalla distillazione dei ramoscelli fioriti di mirto.
Una variante alla distillazione in corrente di vapore è l'idrodistillazione dove una parte del materiale è immerso nell'acqua e quindi subisce una bollitura parziale.


Perchè Distillare Oli Essenziali?

Gli oli essenziali e i profumi estratti dalle piante aromatiche sono stati per millenni le prime sostanze usate dagli uomini per la cura del corpo e della psiche, la profumazione del corpo e degli ambienti. La loro estrazione è stata una naturale conseguenza dell'osservazione delle proprietà curative delle piante che le contenevano. Per lunghissimo tempo gli oli essenziali sono stati i primi rimedi medicinali usati ampiamente prima della nascita della moderna industria farmaceutica. Ed oggi si osserva un ritorno ad essi anche da parte della farmaceutica e dell'erboristeria.
Gli oli essenziali presentano numerosissime azioni farmacologiche: sono antisettici, antibatterici, vermifughi. Hanno proprietà sedative, stimolanti, espettoranti, antidepressive, agiscono come tonici per la circolazione sanguigna ed alcuni di essi come l'olio essenziale di mirto, che contiene il principio attivo acilfluoroglucinolo, presenta una azione antibiotica simile alla penicillina e alla streptomicina, agendo anche sui microrganismi resistenti a questi antibiotici.
Comunque, se non è un azione terapeutica che state cercando, gli oli essenziali possono venir usati come profumi d'ambiente. Svolgono molto bene quest'azione l'olio essenziale di lavanda, di rosmarino, di biancospino o le essenze degli agrumi: di limone e di arance. Basta mettere una o due gocce sulla lampadina calda della vostra lampada da soggiorno e in pochissimo tempo le vostre case saranno profumate con fragranze naturali, non nocive e con effetti positivi sull'umore e sullo stato d'animo.





Bibliografia

Terence McKenna - The Ethnobotany of Shamanism

Marco Valussi - Il Grande Manuale dell’Aromaterapia. Tecniche Nuove

Julia Lawless - Enciclopedia degli Oli Essenziali. Tecniche Nuove

Pier Carlo Braga - Oli Essenziali del genere Thymus e il Timolo: azioni farmacologiche. Johan & Levi Editore.

Carlotta Satta- Le Piante Officinali Spontanee di Sardegna - Zonza Editori

Maria Rosaria Belgiorno - L'alambicco di Pyrgos. Archeo, n° 278,Aprile 2008, pp. 52-59

A.A.V.V. - La Medicina dei Semplici - Monastero della Certosa di Parma

Luciano Cognola - I Segreti della Nuova Aromaterapia. Edizioni Si

domenica 15 maggio 2011

L’Antro delle Ninfe

di Porfirio


Parliamo infine di quanto Omero vuole in modo oscuro significare con l’antro di Itaca, che egli descrive con questi versi, dicendo:

In capo al porto un ulivo dalla lunga chioma,
vicino a lui l’antro amabile, tenebroso,
sacro alle Ninfe che Naiadi si chiamano.
Dentro (vi) sono crateri ed anfore
di pietra, dove le api serbano il miele.
Lì alti telai di pietra, sui quali le Ninfe
tessono stoffe color porpora, meravigliose a vedersi;
lì ancora acque che sempre scorrono. Due sono le porte,
l’una che scende verso Borea è per gli uomini,
l’altra verso Noto ha (un carattere) più divino;
per di là non entrano gli uomini, ché è la via degli immortali. 



Che (il poeta) ha fatto menzione delle cose riferite, non avendole assunte quale risultato di una ricerca (personale sul luogo), lo dimostrano coloro che hanno dato per iscritto una minuta descrizione dell’isola, non ricordando alcun antro siffatto nell’isola come afferma Cronio. D’altra parte è cosa evidente, sarebbe assurdo che uno inventando un antro per licenza poetica, speri di far credere il fortuito e l’inventato col simulare nel paese di Itaca vie per gli uomini e per gli dèi.
Del resto, se non l’uomo, la natura di per sé avrebbe manifestato (una via) per la discesa a tutti gli uomini e un’altra complementare per tutti gli dèi. Poiché il mondo universo è pieno d’uomini e di dèi, l’antro di Itaca è ben lontano dal persuadere che comporti in sé (la via) di discesa per gli dèi e per gli uomini.
Pertanto, fatta questa premessa, Cronio dice che è evidente, non solo ai saggi ma anche agli ignoranti, che il poeta si esprime in questi (versi) con un linguaggio allegorico e allusivo, che induce a ricercare qual è la porta per gli uomini e quale quella per gli dèi, e cosa significa questo antro dalle due porte, che si dice sacro alle Ninfe, ad un tempo amabile e tenebroso, non essendo l’oscurità affatto amabile ma piuttosto temibile.
Perché poi non è semplicemente detto sacro alle Ninfe, ma è con tutto rigore attribuito a quelle che Naiadi si chiamano? E ancora a quale scopo l’impiego di crateri e anfore, non contenenti alcun liquido, nei quali le api serbano il loro miele come in arnie? E quegli alti telai posti (qui) quale dono alle Ninfe, (fatti) non di legno o d’altra materia ma della medesima pietra delle anfore e dei crateri? Ma questo è certo meno difficile (da comprendere): su questi telai di pietra le Ninfe tessono stoffe color porpora, cosa meravigliosa non solo a vedersi ma anche a sentirsi. Chi infatti crederà che le dee tessano panni color porpora in un oscuro antro su telai di pietra, quando s’intende (poi) che i tessuti medesimi delle dee e le vesti di porpora sono visibili? Oltre a ciò è altresì strano che l’antro abbia due porte, delle quali l’una è preparata per la discesa degli uomini, l’altra invece per gli dèi. E si dice che quella accessibile agli uomini sia volta nella direzione del vento di Borea, quella per gli dèi verso Noto.
Né poco è il dubbio sulla causa per cui attribuì le parti di Settentrione agli uomini, e agli dèi invece quelle di Meridione, e per quale motivo non ha usato piuttosto il Levante e l’Occidente, giacché quasi tutti i templi hanno le statue e gli ingressi volti a Levante, in più, coloro che entrano, guardano ad Occidente, allorché stando dinanzi alle statue tributano agli dèi preghiere e riti.
Benché il racconto abbondi di siffatte oscurità, non è una favola inventata per diletto, e nemmeno (del resto) contiene la descrizione di un luogo reale; tuttavia il poeta, che pone per mistica ragione una pianta d’ulivo vicino (all’antro), vuole attraverso esso altro significare. Certo, anche gli antichi stimarono difficile investigare e spiegare tutto ciò, e noi, che tentiamo ora di svelare le cose del loro tempo, siamo d’accordo con loro. Sembrano pertanto più leggeri quanti, scrivendo la storia di (quel) paese, considerano intera finzione del poeta e l’antro e le cose narrate su quello.
Eccellenti al contrario e accuratissimi quanti descrissero la conformazione di quella terra; e (tra questi) Artemidoro d’Efeso scrive nel quinto libro della sua opera divisa in undici libri: "Allontanandosi verso Levante da Panormo, porto di Cefalonia, alla (distanza) di dodici stadi si trova l’isola di Itaca, (che misura) ottantacinque stadi, stretta ed elevata, il cui porto è chiamato Forcino; vi è in esso un lido nel quale si trova un antro sacro alle Ninfe, dove si dice che i Feaci sbarcarono Ulisse".
Non sarebbe dunque cosa interamente inventata (quella) di Omero; ma sia che egli abbia semplicemente narrato, sia che v’abbia aggiunto anche del suo, nondimeno restano le questioni per chi ricerca l’intenzione, e di coloro che (lo) consacrarono, e dell’aggiunta del poeta, giacché gli antichi non consacrarono alcun tempio senza simboli mistici, né Omero a questo riguardo ci riferisce alcunché a caso. Quanto più uno si sforzi di dimostrare che le cose riguardanti l’antro non sono invenzione di Omero, e che questo prima di Omero fosse già dedicato agli dèi, tanto più (questo) monumento si scoprirà pieno dell’antica saggezza; e per questo vale la pena investigare, anzi è necessario esporre in sé la simbolica (sua) consacrazione.
Dunque, gli antichi consacravano convenientemente gli antri e le caverne al mondo, considerato sia nella sua sia nelle sue parti, attribuendo alla terra il simbolo della materia di cui il mondo è composto; perciò taluni ne inferivano pure che la terra fosse materia, e che gli antri significassero che il mondo viene dalla materia. Poiché generalmente gli antri (hanno) formazione spontanea e sono congeniti alla terra; racchiusi in una roccia uniforme, concavi all’interno, si spingono all’esterno verso l’indefinito spazio della terra. Il mondo generatosi e cresciutosi da sé è affine alla materia, che sasso e pietra chiamavano metaforicamente, perché grezza e resistente (all’impronta) della forma, e ritenevano (inoltre) per la sua mancanza di forma infinita. Ed essendo fluida e priva in sé della (determinazione) formale, per la quale si plasma e si manifesta, prendevano come cosa conveniente l’umido stillante degli antri e l’oscuro e, come dice il poeta, tenebroso, a simbolo di ciò che è nel mondo per la materia.
Da una parte dunque, il mondo a causa della materia, è tenebroso ed oscuro, dall’altra, per il congiungimento della forma (alla materia) e l’ordinamento dal quale trae anche il nome di ornamento, è bello e amabile. Donde con proprietà si poté chiamarlo antro: ameno, per colui che lo consegue rettamente per partecipazione delle forme; tenebroso per colui che cerchi di scrutarne e penetrarne con la mente l’infimo fondamento. Cosicché le cose che si trovano fuori, alla superficie, sono amabili, mentre quelle che sono all’interno, in profondità, tenebrose.
Così i Persiani iniziano il miste istruendolo sulla discesa delle anime sottoterra e sulla nuova uscita, dando il nome di caverna al luogo. Da principio, come dice Eubulo, quando Zoroastro consacrò una caverna naturale sui monti vicino alla Persia, florida e ricca di sorgenti, in onore di Mitra, fattore e padre di tutte le cose, la caverna costituiva per lui una immagine del mondo, che Mitra creò, giacché le cose che vi erano disposte a intervalli appropriati, portavano i simboli degli elementi e delle regioni del mondo.
Dopo questo Zoroastro, invalse l’uso anche presso gli altri di compiere i riti iniziatici in antri e caverne, sia naturali, sia costruiti da mano umana. Infatti, come agli dèi celesti si innalzavano santuari, templi ed altari, ai terrestri ed agli eroi are, ai sotterranei buche e sacrari, così al mondo antri e caverne; parimenti poi alle Ninfe: a causa delle acque che stillano o scaturiscono negli antri, ed alle quali presiedono le ninfe Naiadi, come esporremo tra poco.
Non solo, come dicemmo, facevano dell’antro un simbolo del mondo sensibile, ma lo assumevano anche a simbolo di tutte le invisibili potenze, per il fatto che gli antri sono oscuri: così non appare la sostanzialità delle potenze. Dunque, anche Kronos si prepara un antro nell’oceano e vi nasconde i suoi figli, parimenti Demeter alleva Kore in un antro tra le Ninfe, e molte altre cose di questo genere si ritroverebbero scorrendo le opere di coloro che parlano delle cose divine.
Del resto, (si sa) che gli antri erano consacrati alle Ninfe, e tra queste soprattutto alle Naiadi che si trovavano presso le sorgenti, e traggono il loro nome dalle acque dalle quali sorgono fluenti; e lo attesta anche l’inno ad Apollo, nel quale si legge:

Per te aprirono le sorgenti delle acque dell’intelletto
che dimorano negli antri
alimentate dall’alito della terra
per l’ispirato oracolo della Musa;
esse sgorgando sulla terra...
senza posa porgono ai mortali brocche (colme) delle dolci correnti.

Da qui, credo, presero le mosse anche i Pitagorici; e, dopo questi, Platone rappresentò il mondo come un antro o una caverna. Perciò in Empedocle le potenze conduttrici delle anime dicono:

Ecco, siamo giunte nell’antro coperto.



In Platone, nel settimo libro della Repubblica, si legge: "Ecco infatti gli uomini in un antro sotterraneo, in una dimora simile a una caverna, che abbia l’ingresso aperto alla luce esteso quanto tutta la caverna. E rispondendo l’interlocutore: "Strana figura tu esponi", soggiunse: "È necessario dunque, mio caro Glaucone, adattare questa figura a quanto dicevamo prima: paragonando la sede che si rivela attraverso gli occhi, ad una prigione, la luce del fuoco in sé, alla potenza del Sole"".
Da ciò è dunque provato che coloro che si occuparono delle cose divine, consideravano gli antri quali simboli del mondo e delle potenze universali, ma anche come già si disse, dell’essenza intelligibile, spinti (a ciò), certamente, da diverse e differenti ragioni.
In effetti gli antri erano considerati (come simbolo) del mondo sensibile, per il fatto che sono oscuri, petrosi, umidi; e tale è il mondo, a causa della materia di cui è costituito, che è resistente (alla determinazione) e fluida.


Ma anche dell’intelligibile, perché non cade sotto il dominio del senso, e per la solidità dell’essenza; così anche le potenze particolari non sono percepibili, soprattutto quelle che si trovano nella materia. Difatti, gli antri erano ritenuti simboli in conformità (alle modalità): naturale, notturna, oscura, petrosa; ma niente affatto rispetto alla forma, come taluni pensavano, perché non tutti gli antri sono sferici come quello che in Omero ha due entrate.
Poiché l’antro ha (per definizione) duplice aspetto, non solo lo prendevano come sostanza dell’intelligibile ma anche come essenza del sensibile; così quello ora considerato, per il fatto di avere acque sempre scorrenti, non potrebbe affatto essere simbolo della realtà intelligibile (in sé) poiché supporta quello della forma congiunta alla materia. Perciò non è sacro alle Ninfe dei monti né (a quelle) delle cime o ad altre del medesimo genere, ma alle Naiadi, che traggono il loro nome dalle fonti.


Ora, noi chiamiamo ninfe Naiadi in modo particolare quelle potenze che sono preposte alle acque, mentre (loro) chiamavano anche insieme le anime cadute nella generazione. Si riteneva infatti che le anime seguissero l’acqua; la quale è (esistenziata) dallo spirito divino, come dice Numenio; per questo afferma, anche, che il Profeta disse: "Lo spirito di Dio aleggiava sulle acque".
Per questa ragione gli Egizî non collocavano su (una base) solida tutti i demoni, ma li collocavano su di un naviglio; e anche il sole e, in breve, si deve sapere, tutte quelle anime che, cadute nella generazione, vengono avvolte dall’umido. Donde Eraclito: "Alle anime sembra diletto, non morte, il divenire umide: la caduta nel divenire è per loro diletto". E altrove: "La nostra vita sembra la loro morte, e la loro vita la nostra morte". Perciò il poeta chiama umidi" coloro che si trovano nel divenire, dato che le (loro) anime sono pervase dall’umido. Perché a queste riesce caro il sangue e l’umido seme, mentre a quelle "delle piante l’acqua è di nutrimento.
Del resto, taluni sostengono che gli esseri dell’aria e del cielo si nutrono dei vapori umidi, (che si liberano) dalle fonti e dai fiumi, e delle altre esalazioni. Parve poi agli Stoici che il sole si nutrisse delle esalazioni del mare, la luna di quelle delle acque delle sorgenti e dei fiumi, gli astri dell’esalazione della terra. E per questo il sole trova la sua esistenza quale massa di intelletto accesa dal mare, la luna dalle acque dei fiumi, e le stelle dall’esalazione della terra. Ne consegue di necessità che le anime sono o corporee o incorporee: così, quando attirano un corpo, soprattutto quelle che devono essere imprigionate nel sangue e in umidi corpi, volgono verso ciò che è umido e prendono corpo inumidendosi. Perciò quelle di coloro che sono morti vengono evocate con l’effusione e di bile e di sangue, e quelle che amano il corpo, attirando l’umido spirito, lo condensano in guisa di nube: perché l’umidità condensata in aria forma la nube; ed essendosi condensato in esse lo spirito per eccesso d’umidità, diventano visibili. Tra queste sono quelle che, per aver contaminato lo spirito, si danno nella fantasia di taluni con l’aspetto di fantasmi; tuttavia, quelle pure sfuggono alla generazione. E lo stesso Eraclito disse: "L’anima secca è molto saggia". Perciò anche qui lo spirito diviene umido e più molle per il desiderio d’intima unione, quando l’anima attira il vapore umido per l’inclinazione alla generazione.
Di conseguenza, le ninfe Naiadi sono (in figura) quelle anime che vanno verso la generazione. Donde il costume di chiamare ninfe coloro che per sposarsi, quasi si unissero in vista della generazione, e di effondere con le acque lustrali prese dalle sorgenti o dalle fonti o dalle fontane perenni.
Peraltro, per le anime che avanzano secondo natura nella perfezione e per i demoni tutelari la nascita il mondo è sacro e amabile, pur essendo per natura oscuro e tenebroso. Da ciò si congetturava che le stesse fossero aeriformi e traessero dall’aria la (loro) sostanza. Per questo motivo sarebbe consacrato sulla terra un antro loro conveniente, amabile e tenebroso ad immagine del mondo, nel quale come in un grande tempio indugiano (tali) anime. Mentre è conveniente alle Ninfe preposte alle acque quell’antro in cui sono acque che sempre scorrono.
Sia dunque il presente antro attribuito alle anime e tra le potenze più particolari alle Ninfe, che essendo preposte alle fonti e alle sorgenti, vengono perciò chiamate Pegee e Naiadi. Quali differenti simboli abbiamo dunque, riferentisi gli uni alle anime e gli altri alle potenze delle acque, per ritenere che l’antro è stato consacrato in comune ad ambedue (le specie)? Siano dunque i crateri di pietra e le anfore simboli delle Ninfe delle acque.

Difatti questi sono simboli di Dioniso in quanto che d’argilla, vale a dire di terra cotta: per essere questi graditi quale dono al dio della vite, perché il suo frutto è cotto dal fuoco del cielo.
Crateri di pietra e anfore convengono altresì molto bene alle Ninfe che sono preposte all’acqua che sgorga dalle rocce, e quale simbolo sarebbe più conveniente di questi alle anime cadute nel divenire e nell’individuazione? Perciò il poeta osò dire che su questi tessono stoffe color porpora, meravigliose a vedersi

È infatti nelle ossa e attorno alle ossa che si forma la carne e negli animali queste tengono della pietra, (di là) l’assimilazione con la pietra. E perciò i telai sono fatti di pietra e non di altra materia. Le stoffe color porpora sono apertamente la carne intessuta di sangue: difatti le tele (assumono) il colore purpureo dal sangue, e anche la lana è tinta con (quello) degli animali, e la formazione della carne si dà per il sangue e dal sangue.
Il corpo è la veste dell’anima che lo indossi; cosa meravigliosa a vedersi, sia che tu consideri la struttura (di questo), sia l’unione dell’anima con questo.
Così anche in Orfeo, Kore, che guarda a tutto quanto nasce da seme, è tramandata quale tessitrice, giacché gli antichi chiamavano velo il cielo, quasi fosse veste degli dèi celesti.
Per quale ragione dunque, le anfore sono piene non di acqua ma di favi? Perché in esse, dice (il poeta),
le api serbano il loro miele.
Tithaibossein sta a significare tithenai ten bosin (depositare il nutrimento), e miele è per le api nutrimento e vita.
Del resto, coloro che parlano delle cose divine si sono serviti del miele per molti e diversi simboli, per il fatto che raccoglie in sé svariate potenze;’ ed è perciò che ha la capacità di purificare e conservare: infatti molte cose si mantengono incorrotte col miele e le vecchie ferite si purgano col miele. È dolce al gusto, e raccolto nei fiori dalle api, le quali avviene nascano dai buoi.
Perciò dunque, a coloro che vengono iniziati ai misteri Leontici viene versato sulle mani miele in luogo dell’acqua per lavarsi, ordinando di mantenere le mani monde di ogni cosa dolorosa, dannosa, impura; e impongono cosi al miste, data la capacità purificatrice del fuoco, convenienti lavacri, avversando l’acqua come contraria al fuoco. Così pure purificano la lingua da ogni cosa falsa.
Quando invece offrono miele a Persa, come al custode dei frutti, fissano (così) nel simbolo (la capacità) del conservare. Onde taluni sostenevano che il nettare e l’ambrosia, che il poeta fa stillare dalle narici affinché non si corrompano coloro che sono morti, sono presi per miele, giacché il miele è nutrimento agli dèi. Perciò dice anche in qualche luogo: "nettare rosso"; in effetti tale è il miele per il colore. Ma noi esamineremo altrove con più accuratezza se per nettare si debba intendere miele.
In Orfeo poi, Kronos è insidiato col miele da Zeus: (questi) infatti, pieno di miele diventa ebbro e, come ottenebrato da vino, s’addormenta.
Così pure in Platone, Poros s’empie di nettare: e non si trattava certo di vino. Perché dice, in Orfeo, la Notte a Zeus suggerendo l’insidia col miele:

Quando tu lo vedrai sotto le querce dall’alte chiome, ebbro per l’opere delle api dai sonori ronzii, legalo.

Ciò subisce Kronos: legato, è evirato come Urano; volendo intendere colui che parla delle cose divine, che a causa del piacere sono incatenate e s’abbassano alla generazione le divinità, disseminando (così) le potenze liberate per il piacere. Onde Kronos evira Urano, (allorché questi) per desiderio di copula scende verso Rea, ma una medesima cosa significa per loro il piacere che viene dalla copula e quello che viene dal miele, ingannato dal quale Kronos è evirato. In effetti Kronos e la sua sfera è il primo di quelli che hanno moto contrario ad Urano; e le potenze discendono dal cielo e (dagli astri) vaganti. Ma Kronos raccoglie quelle che vengono dal cielo, e Zeus quelle che vengono da Kronos.
Donde, essendo il miele preso e per la purificazione, e per la corruzione naturale,’ e per il piacere che conduce alla generazione, è attribuito quale simbolo conveniente alle Ninfe delle acque, data l’incorruttibilità delle acque cui sono preposte, la loro purezza, il concorso (che hanno) alla generazione.
L’acqua infatti concorre alla generazione; e la ragione per cui le api serbano il loro miele nei crateri e nelle anfore, sta nel fatto che i crateri costituiscono il simbolo delle sorgenti: come pure il cratere è stato posto accanto a Mitra in luogo della fonte; mentre le anfore di ciò con cui attingiamo dalle sorgenti.
Sorgenti e fonti convengono allo stesso tempo alle Ninfe delle acque, e ancora più, alle Ninfeanime che gli antichi chiamavano con nome specifico api, quali operatrici di piacere. Onde Sofocle poté senza sconvenienza dire delle anime:

Lo sciame dei morti ronza e ascende.

Gli antichi erano soliti chiamare api anche le sacerdotesse di Demeter, preposte come dee terrene alle iniziazioni, e la stessa Kore, Mellita. E ape chiamavano la Luna, quale protettrice della generazione, anche perché per altro aspetto la Luna è Toro, e l’esaltazione della Luna avviene (nel) Toro, e, in più, le api nascono dai buoi. E nate da buoi (chiamavano) le anime giunte nella generazione, e ladro di buoi il dio che ode nel secreto il divenire.
Già (in passato) è stato fatto del miele un simbolo della morte, e perciò sacrificavano alle divinità sotterranee libagioni di miele, e del fiele quello della vita.’ Volendo certo dire che la vita (razionale) dell’anima viene a morte per il piacere, mentre rivive per l’amarezza: donde i sacrifici di fiele agli dèi; oppure che la morte libera dalle cure, mentre la vita in questo luogo è faticosa e amara.
Né tuttavia dicevano indistintamente api tutte le anime che vanno verso la generazione, ma solo quelle che dovevano condurre una vita secondo giustizia e, compiute le opere grate agli dèi, nuovamente tornare. Perché questo vivente ama il ritorno, ed è giusto al massimo grado e sobrio: donde sobrie (si dicevano) anche quelle libagioni fatte col miele. Né posavano (,Sulla mensa) le fave, che avevano assunto quale simbolo della generazione continua e dell’irrigidimento, giacché sono pressoché le sole, tra ciò che si semina, ad essere interamente forate, non essendo segmentate dalle ostruzioni dei nodi. Pertanto i favi e le api costituirebbero simboli convenienti e comuni sia alle Ninfe delle acque, sia alle anime che vanno verso la generazione quasi promesse spose.
Del resto, poiché gli antichissimi, prima ancora che si concepissero i templi, consacravano caverne e antri agli dèi: in Creta i Cureti a Zeus, in Arcadia a Selene e a Pan Liceo, ed in Nasso a Dioniso, e inoltre in ogni luogo dove, propiziandosi la divinità con la caverna, riconobbero Mitra, per questo Omero non si accontenta di dire che la caverna di Itaca ha due porte, ma dice (anche) che l’una porta è volta verso Borea, e l’altra, che ha (un carattere) più divino, verso Noto; e che quella settentrionale scende: non indica invece se quella verso Noto scende, ma solo che:

… per di là non entrano gli uomini, che è la via degli immortali.

Resta pertanto da indagare quale sia il divisamento sia delle consacrazioni, qualora il poeta esponga il vero, sia del suo oscuro detto, qualora sia un racconto di sua invenzione.
Dato che l’antro costituisce l’immagine e il simbolo del mondo, Numenio e Cronio suo compagno dicono che due sono nel cielo le estremità, delle quali una non è più meridionale del tropico invernale, e l’altra non è più settentrionale di quello estivo. Quello estivo poi è nel Cancro, mentre quello invernale è nel Capricorno. Ed essendo per noi vicinissimo alla terra il Cancro, a buona ragione (il suo segno) è attribuito alla Luna che è prossima alla terra. Mentre il Capricorno, essendo invisibile più del polo meridionale, è attribuito a quello che di gran lunga è il più lontano e alto di tutti (gli astri) vaganti, cioè a Kronos.
In vero le posizioni dei segni dello zodiaco sono in (questo) ordine dal Cancro al Capricorno: dapprima il Leone, sede di Helios; poi la Vergine, di Hermes; la Bilancia, di Afrodite; lo Scorpione, di Ares; il Sagittario, di Zeus; il Capricorno, di Kronos.
In senso inverso poi dal Capricorno: l’Acquario, di Kronos; i Pesci, di Zeus; l’Ariete, di Ares; il Toro, di Afrodite; i Gemelli di Hermes; e infine il Cancro, di Selene.
Coloro dunque che parlano delle cose divine ponevano essere due (il numero) di questi ingressi: Cancro e Capricorno; e Platone parla di due bocche. Di queste, il Cancro è quella per cui le anime discendono, ed il Capricorno quella per cui ascendono. Ma il Cancro è settentrionale e atto alla discesa, mentre il Capricorno è meridionale e atto all’ascesa. E le parti di Settentrione sono proprie alle anime che discendono verso la generazione.
E rettamente gli ingressi dell’antro volti a Borea discendono per gli uomini, mentre le parti di Meridione non sono proprie agli dèi, ma a coloro che ascendono agli dèi. Per questa ragione (il poeta) dice via non propria agli dèi, ma agli immortali, comune anche alle anime che sono per sé o per essenza immortali.
Dicono che anche Parmenide facesse menzione di questi due ingressi nella (sua opera) Sulla natura delle cose, e che se ne serbi memoria (presso) Romani ed Egizî. Infatti i Romani celebrano, le feste di Kronos quando il sole entra nel Capricorno; e festeggiano facendo indossare agli schiavi le vesti dei liberi, e mettendo tutto in comune. (Con ciò) il legislatore volle dire che in conformità a questo ingresso del cielo, coloro che per la nascita si trovano ora nella condizione di schiavi, durante le feste di Kronos e nella casa consacrata a Kronos, vengono liberati, e vivificati tornano alla generazione. Quindi (a partire) dal Capricorno la via è per loro atta alla discesa; perciò chiamavano janua la porta, dicendo anche januarius, cioè portiere, il mese nel quale il sole ritorna dal Capricorno verso Oriente, volgendosi alle parti di Settentrione.
Mentre per gli Egizî il principio dell’anno non è nell’Acquario, come per i Romani, ma nel Cancro . Difatti Sothis, che i Greci dicono stella del Cane, si trova presso il Cancro.
Il loro novilunio poi è costituito dal sorgere di Sothis, che dà principio alla generazione nel mondo. Né in verità attribuivano porte al Levante e al Ponente, né agli equinozi quali l’Ariete e la Bilancia, ma a Noto e a Borea, [e agli ingressi verso Noto, massimamente meridionali, o verso Borea, massimamente settentrionale]; che l’antro era consacrato alle anime e alle Ninfe delle acque, e sono quelli i luoghi convenienti alle anime (sottoposte) alla generazione e alla morte.
Quanto a Mitra gli era subordinata una sede particolare in Prossimità degli equinozî; perciò porta il brando dell’Ariete, segno di Ares, ed è portato dal Toro, (segno) di Afrodite: che Mitra, come il Toro, è demiurgo e signore della generazione. Inoltre è posto in prossimità del circolo equinoziale, avendo alla destra le parti di Settentrione, a sinistra quelle di Meridione; ed avendo ordinato a sé, nella sua conformità,’ l’emisfero meridionale per essere caldo, e quello settentrionale per la freddezza del vento.
Del resto, è con ragione che si associano i venti alle anime che vanno verso la generazione, e a quelle che si separano dalla generazione, per il fatto che anche loro attirano lo spirito, come pensano taluni, e ritengono tale sostanza. Tuttavia, il vento di Borea è conveniente a quelle che vanno verso la generazione: perciò il soffio di Borea "rianima" coloro che sono sul punto di morire e "respirando male rendono l’anima" mentre quello di Noto dissolve. Infatti l’uno essendo più freddo, congela e trattiene nella freddezza della generazione terrestre, mentre l’altro, essendo più caldo, dissolve e rimette al calore del divino. Ma essendo il luogo della nostra dimora più conforme a Borea, è inevitabile che (le anime) informate convengano a questo vento di Borea, e quelle che da qui si partono a Noto. E questa è anche la causa per cui Borea è veemente allorché si alza, e Noto allorché cessa. Difatti, quello incombe direttamente su coloro che abitano sotto il polo, questo invece viene da molto più lontano: il (suo) flusso (venendo) da lontano è più tardo (nel colpire), ma quando si sia accumulato allora cresce.
Inoltre, entrando le anime nella generazione dall’ingresso settentrionale, per questo presupposero proclive all’amore il vento; e infatti:

Simile ad un cavallo dalla nera criniera si giacque (con esse)
che ingravidate partorirono dodici puledri.

E dicono ancora che rapì Orithya, e generò Zetes e Kalais. Al contrario, coloro che assegnano agli dèi il Meridione, quando s’oppressa il mezzogiorno, stendono veli nelle celle degli dèi. Osservando cosi il precetto omerico che non (rende) lecita agli uomini l’entrata nei santuari al tempo dell’inclinazione del dio verso Noto:

... ma è la via degli immortali.

Poiché il dio sta nel punto culminante sopra la porta, fissano pertanto (con essa) anche un simbolo del mezzogiorno e di Noto. Quindi non era assolutamente permesso parlare presso le porte a qualsiasi ora, quasi che sacre fossero le porte. E per questo i Pitagorici e i saggi dell’Egitto, che onorano col silenzio il dio che è principio dell’universo, proibivano di parlare varcando gl’ingressi e le porte.
Così Omero sa che le porte sono sacre, come dimostra presso di lui Oincus, che scuote (la porta) in luogo della supplica:

Scuotendo le salde imposte supplica il figlio

Così pure sa che gli ingressi del cielo, affidati alle Ore, traggono principio dai luoghi nebulosi, e che la loro apertura e chiusura avviene mediante le nubi:

Sia disperdendo sia interpongano una densa nube.
E per questo mugghiano, che anche i tuoni si danno dalle nubi:
Da sé mugghiano gli ingressi del cielo, che le Ore ministrano.

E altrove parla degli ingressi del sole, volendo significare Cancro e Capricorno. (Il sole) in effetti procede fino a questi, discendendo da Borea verso le parti di Meridione è di là ascendendo verso le parti di Settentrione. Orbene, il Capricorno e il Cancro si trovano nella Via Lattea, della quale vengono ad occupare le estremità: il Cancro, quella settentrionale, il Capricorno, invece, quella meridionale.
Secondo Pitagora poi, la turba, (che si percepisce) nei sogni, è costituita da quelle anime che, afferma, si riuniscono nella Via Lattea, così chiamata dal latte di cui si nutrono (le anime) allorché cadono nella generazione. Perciò coloro che evocavano le anime sono soliti fare libagioni a queste con miele mischiato a latte: perché (queste) per il piacere si sono date cura di muovere alla generazione, ed il latte si forma per natura insieme ad esse.
Inoltre le parti di Meridione suscitano persone di piccola statura: difatti il calore le dimagrisce al massimo grado, ed è per questo stesso che diminuiscono e disseccano. Mentre in quelle di Settentrione (le persone) sono tutte alte; come provano Celti, Trací, Sciti, e la loro terra che porta innumeri pascoli. Talché il suo stesso nome viene da pascolo: ma il nome pascolo vale nutrimento, e di conseguenza (il vento) che spira dalla terra del nutrimento, essendo nutriente, è chiamato Borea.
Per queste cose, dunque, le parti boreali convengono alla stirpe mortale, cadente sotto la generazione; mentre le parti australi a quella (che ha un carattere) più divino; parimenti le parti di Oriente agli dèi e quelle di Occidente ai demoni.
Poiché la natura ha principio dalla differenziazione, stimarono ovunque ciò che ha due porte come suo simbolo. Infatti, il viaggio si compie attraverso l’intelligibile e il sensibile; e nel sensibile, o attraverso ciò che non erra o ciò che erra; e di nuovo, o per cammino immortale o per mortale cammino. E v’ha un centro sopra la terra e uno sotterraneo; e l’Oriente di contro all’Occidente; e la sinistra e la destra; la notte e il giorno: per questo l’armonia (ha un andamento) a doppia curva e saetta attraverso gli opposti.
Pure Platone parla di due bocche: attraverso l’una (passando) coloro che salgono in cielo, attraverso l’altra coloro che scendono in terra. E quanti parlano delle cose divine fissano il Sole e la Luna quali ingressi delle anime; e per il Sole si sale, mentre per la Luna si scende. E due piti sono in Omero:

Dei quali, l’uno dà doni di male, e l’altro di bene

Anche presso Platone, nel Gorgia, l’anima è tenuta per un pito: ed è benefica per un verso, malefica per l’altro; razionale e irrazionale. Che i piti, come le anime, costituiscono il ricettacolo di energie e qualità siffatte. E in Esiodo si vede un pito chiuso, e un altro che il piacere apre e per tutto disperde, rimanendo la sola speranza. Infatti, in coloro nei quali l’anima è frivola, dispersa intorno alla materia, viene meno all’ordine; in tutti questi, è solita pascersi di buone speranze.
Pertanto, essendo ovunque ciò che ha due porte simbolo della natura, è con ragione che anche l’antro ha non una ma due porte, parimenti diverse per, modo d’operazione: l’una spetta agli dèi e ai valenti (tra gli uomini), l’altra ai mortali e più frivoli.
Anche Platone, che muove da ciò, conosce (il senso) dei crateri. e prende (quindi) piti in luogo delle anfore, e due bocche, come dicemmo, in luogo dei due ingressi.
E Ferecide di Siria, parlando di recessi, di buche, di antri, di porte e di ingressi, vuole con ciò significare le nascite e le morti delle anime. Ma per non estendere il discorso, introducendo i punti di vista degli antichi filosofi e di coloro che parlano di cose divine, noi riteniamo con ciò di avere spiegato tutto il disegno della narrazione.
Resta dunque da esporre il simbolo dell’ulivo piantato (in capo al porto); cosa che infine (il poeta) palesa. Esso significa certo qualcosa d’ancora più singolare, (poiché) non è detto semplicemente piantato, ma in capo (al porto):

In capo al porto un ulivo dalla lunga chioma vicino a lui l’antro...

Non è però per un caso, come si potrebbe opinare, che germoglia in questo modo, ma esso contiene l’oscuro significato dell’antro. Poiché, infatti, il mondo non si trova ad essere né per caso né per ventura, ma è compimento’ della sapienza di dio e della intelligente natura; (così) l’ulivo è piantato accanto all’antro, immagine del mondo, quale simbolo della sapienza di dio. In effetti è l’albero di Atena, ed Atena è sapienza. Poiché (Atena) è nata dalla testa’ del dio, colui che parla delle cose divine ha trovato un luogo conveniente, allorché lo consacrò in capo al porto; volendo con ciò significare che questo universo non è opera nata da sé, né da caso privo di ragione, ma è compimento di natura intelligente e di saggezza; che è per un verso separata da lui, per l’altro vicina, posta alla testa di ogni porto.
L’ulivo poi, che è sempre verde, supporta una qualità molto conveniente alle conversioni delle anime nel mondo, alle quali è consacrato l’antro.
Infatti durante l’estate le foglie candide volgono in su, mentre durante l’inverno sono (solo) quelle più candide che si rigirano; onde anche coloro che invocano nelle preghiere e nelle suppliche tendono ramoscelli d’ulivo, presagendo (così) di mutare per sé in lucore l’oscurità dei pericoli.
L’ulivo, che è dunque per natura sempre verde, porta un frutto che è lenimento alle pene, ma è pure offerto ad Atena, e la corona per gli atleti vittoriosi si trae da lui, e da lui il supplice ramo per coloro che pregano.
Così anche il mondo è retto da intelligente natura, mosso da eterna e sempre verde sapienza, dalla quale è concesso il premio della vittoria agli atleti della vita e il rimedio alle molte pene, e colui che rinfranca i miseri ed i supplici: il demiurgo che mantiene il mondo.
In questo antro dunque, dice Omero, bisogna deporre i beni di fuori, e spogli cingere l’abito del mendico, e affliggere il corpo, e avversare tutto quanto è superfluo, e piegare i sensi consigliandosi con Atena, con lei assiso alle radici dell’ulivo, sul come recidere tutte le insidiose passioni della propria anima.
Difatti non senza uno scopo, credo anche per queste cose Numenio stimava che, per Omero, Ulisse costituisse nell’Odissea immagine di colui che attraversa per gradi la generazione e che per tal modo è ristabilito presso coloro che sono oltre ogni tempesta e non hanno esperienza del mare:

Affinché giunga presso coloro che non conoscono il mare
e mangiano un cibo non condito col sale.

Del resto anche in Platone e il mare, e l’acqua del mare, e l’onda, sono la sostanza materiale. E per questo, credo, chiamò Forcino il porto:

V’è poi un porto proprio a Forcino, l’anziano del mare.

Dal quale fa discendere, all’inizio dell’Odissea, anche una figlia di nome Toosa, da cui nacque il Ciclope che Ulisse privò dell’occhio, affinché (cioè) sino in patria ci fosse ricordo degli errori. Onde conviene anche a lui lo stare assiso sotto l’ulivo, come chi supplichi il dio e plachi il demone natale col supplice ramo.
Non era infatti possibile liberarsi facilmente di questa vita sensibile a colui che l’aveva orbata, e s’era adoprato per annullarla d’un sol colpo. Ma sempre tiene dietro a colui che osa tali cose l’ira delle divinità marine e materiali. Che è necessario prima placare con sacrifici, e ancora con fatiche da poveri mendicanti e atti di perseveranza, ora combattendo le passioni, ora incantando e ingannando, passando per ciò stesso attraverso ogni modalità, acciocché, spogliato dei propri cenci, possa di tutto impadronirsi.
E neppure così sarà libero dalle fatiche, ma solo quando sia completamente fuori dal mare, e ignaro delle cose del mare e della materia, a tal punto da ritenere che il remo sia un ventilabro per la completa ignoranza degli arnesi e dei lavori del mare.
Né è da ritenere che tali spiegazioni siano state forzate, e siano congetture di quanti inventano ragioni. Ma considerata l’antica saggezza, e quanta fosse la sapienza di Omero e la perfezione (che aveva) in ogni virtù, non è possibile non riconoscere come nella forma del mito egli esprimesse per immagini ciò che più ha (carattere) divino.
Non poteva infatti fingere per intero un argomento che dà nel segno, se non rifacendosi per la finzione ad alcunché di vero.
Ma differiamo la trattazione di ciò ad altra opera, mentre ha qui fine l’ermeneutica del principio che informa l’antro.