domenica 26 agosto 2012

Di un Guerriero, di una Dea e di un Albero.

Piccolo racconto esoterico.

di Nannai




Tavoletta I

Di un Guerriero, di una Dea e di un Albero

Così parlò Endubsar
Grande scriba della Casa dell’Albero,
figlio della città di Uruk
fedele servitore del re Enmerkar,
re di Uruk.
Mi sia testimone Enki,
Signore della Terra,
che tutto quanto riportato
in queste tavolette
è un fedele resoconto dei fatti
così come si sono svolti in quegli anni dolorosi del mio signore.


Tutto ebbe inizio
Il nono giorno del nuovo anno,
il giorno sacro alla dea Inanna,
signora di Uruk.
È in quel giorno che cominciarono
i dolori del mio signore, Enmerkar.
Ed è qui in queste tavolette che voglio raccontare
fedelmente gli eventi così come si sono svolti in quegli anni.



Avanzava con passo sicuro, lungo la via processionale, Enmerkar, principe guerriero, figlio del re Meskiaggasher, che aveva da poco fatto ritorno dalla campagna vittoriosa contro la città di Aratta, al di là delle sette catene montuose. La folla, che fiancheggiava la lunga via che portava al tempio, decorata con immagini di draghi cornuti e di tori, lo salutava invocando il suo nome e acclamandolo. Davanti a lui si stagliava l’E-anna, la Casa del Paradiso, dimora della dea Inanna.
Lo precedevano le ancelle danzanti, gli offerenti e i cantori che innalzavano alla dea i loro canti. Dietro di lui, lo seguivano i suoi armati, i fedeli guerrieri che ai suoi ordini riportarono numerose vittorie. E, ancora dietro venivano i carri trainati dai forti buoi colmi di ori, di lapislazzuli e dei tesori provenienti dalla città sconfitta di Aratta, al di là delle sette catene montuose.
In fondo alla via, davanti alle porte del giardino del tempio della dea si trovava Meskiaggasher, signore di Uruk e Kullab, padre del guerriero Enmerkar. Quando i due si trovarono l'uno di fronte all'altro, dopo un intenso sguardo, si abbracciarono con forza. E poi il padre Meskiaggasher, tenendo un braccio intorno al collo del figlio, si rivolse al popolo che osservava i due sovrani, il re e il principe. Il re Meskiaggasher si rivolse al suo popolo con voce tonante dicendo: « Il nostro figlio Enmerkar ha fatto ritorno dalla vittoriosa campagna contro la città di Aratta. E' una stupenda notizia in mezzo a quelle tristi di quest'anno, duro e difficile. Voi tutti sapete che gli dei del cielo non hanno reso floridi i raccolti di quest'anno, le piogge si sono fatte attendere e il veloce Tigri e il placido Eufrate hanno ridotto il loro flusso, causando un raccolto povero e la fame del nostro bestiame. Oggi nel nono giorno sacro alla dea Inanna si svolge l'antico rito che si ripete ininterroto fin dall'inizio dei tempi, da quando la terra fu separata dal cielo, e fu stabilito un nome per l'uomo.
In questo giorno, in cui gli antichi misteri della creazione dell'uomo vengono svelati al sovrano, che con la dea si congiunge nell'oscurità del Sahuru. Io in questo giorno ho deciso che ad officiare l'antico rito, sarà Enmerkar, mio figlio, il valoroso guerriero che di numerose battaglie è il vincitore; che il suo vigore possa appagare la nostra dea, così che essa conceda fertilità alle nostre terre, vasti raccolti e un bestiame grasso.»
Tutto il popolo approvò questa notizia mandando un alto grido che si sentì per tutta la via processionale fino alle porte del tempi. Il re, felice della reazione del popolo, prese con entrambe le mani le spalle vigorose del figlio e lo guardò negli occhi. Non servirono parole, non servì altro che quell'intenso sguardo. Enmerkar che non si aspettava quella scelta, al sentire la notizia perdette tutta la sicurezza mostrata fino ad allora e la sua mente si perdette nel vuoto. Ma l'intenso sguardo del padre lo riportò in sè.
Le porte del tempio si aprirono dietro di lui, lasciando intravedere al di là di esse il vasto giardino della dea, una verde oasi ricca di vegetazione e di fiori.
Ne uscì fuori un sacerdote dalla testa rasata. Si fermò appena poco prima del limite della cinta muraria del tempio.
Meskiaggasher spinse il figlio con una mano. Il Sacerdote si avviò facendo strada al giovane principe.
In mezzo al giardino si ergeva un grande albero, un solo albero, dalla grande chioma con lunghi verdi rami rivolti verso terra. L'albero, immerso in una vasca di acqua cristallina in cui crescevano i fior di loto, sembrava animato dal leggero vento. Al passare del giovane guerriero, i rami toccarono la nera chioma del giovane. E quasi a non voler abbandonare quel fugace abbraccio, i lunghi e flessibili rami, mossi dal vento, sembrarono seguire Enmerkar che si allontanava.
I due uomini proseguirono per il lastricato e giunti alla base della ziggurat incominciarono a salire i gradini che li portarono fin su, in cima, nel tempio della dea. Qui, dentro, il sacerdote fece entrare Enmerkar in un ampia sala dove venne spogliato dei suoi indumenti dalle ancelle della dea. Il giovane principe venne lavato con acqua profumata e unto con i preziosi oli estratti dalle più rare essenze. I suoi neri capelli furono intrecciati, la sua barba pure. Gli fu fatta indossare una preziosa tunica orlata d'oro e sul suo capo venne posta una corona di fronde.
Il sacerdote gli si avvicinò e parlando per la prima volta si rivolse al giovane principe: “Tieni a mente queste parole: mantieni la calma per tutta la notte. Indossa per tutta la notte la corona di fronde. La dea ti riconoscerà. Tu non devi far altro che ricordare. Ora seguimi.”
Uscirono dalla sala, e attraversato un breve corridorio illuminato da due bracieri, giunsero di fronte ad un altra porta. Questa era di pesante legno, intarsiato con stupende immagini di grandi e frondosi alberi.
Il sacerdote aprì il portone e con un gesto del capo indicò ad Enmerkar di entrare.
La pesante porta si chiuse dietro di lui, lasciandolo nell’oscurità più completa.

La stanza era completamente al buio ed anche quando i suoi occhi si abituarono all’oscurità non riuscirono a vedere nulla. Sentiva, però, un leggero respiro provenire dal lato opposto della sala.
Enmerkar chiese “Qual’è il tuo nome?” “Sei tu la sacerdotessa della dea?”
La risposta che ebbe fu diversa da quella attesa. “Io non voglio. Non voglio stare qui. Ho paura. No, non voglio! Perché? Perché a me?”
Enmerkar quasi a tranquillizzare quella voce impaurita proveniente dal buio, disse: “Tranquilla, non hai nulla da temere da me. Tu sei stata scelta per ricevere la dea. La scelta è ricaduta su di te tra centinaia di giovani donne tue pari. Dovresti esserne orgogliosa e felice.”
Le parole di Enmerkar sembravano non aver sortito effetto perché dall’angolo oscuro si sentì provenire un pianto, intercalato da singhiozzi soffocati.
Non gli restò che attendere. Un pò perplesso e a disagio immerso in quel buio con una donna che piangeva e che non poteva vedere.
Il tempo in quella sala sembrava non scorrere mai. Nella piena oscurità del Sahuru solo i pensieri che si susseguivano potevano dare un senso di scorrimento del tempo. Alla fine anch’essi terminarono e il tempo sembrò fermarsi. La temperatura della sala sembrò scendere bruscamente. La ragazza non gemeva più. Poi da una fessura in alto entrò una lama di luce bianca, lattea, perlacea che andò pian piano ad illuminare l’angolo dove si trovava la ragazza. E per la prima volta Enmerkar poté vedere con chi aveva passato tutto quel tempo nell’oscurità.
Allora, lei si alzò e gli si avvicinò.


Chi sei?” chiese Enmerkar.
Come? Non mi riconosci mio amato? Non ti ricordi di me, mio Dumuzi?”
Non hai ricordo della tua dea che tanto hai amato. Dei giorni passati all’ombra del grande albero huluppu? Non hai ricordo, mio amato Dumuzi, dei nostri abbracci e delle nostre carezze nel mezzo del giardino che tu tanto hai curato? Non ti ricordi di quei momenti, mio amato? Hai forse dimenticato?”
La ragazza si avvicinò al giovane principe e lo guardò negli occhi. Poi, sollevò le mani per mettergli bene la corona di fronde. 
Ancora porti la mia corona, la corona che io ti feci con le mie mani, quando tu con coraggio scacciasti il serpente resistente a tutti gli incantesimi. Io te la regalai quando scacciasti la vergine oscura dal tronco del mio albero. Te la intrecciai quando allontanasti con coraggio l’uccello Anzu e i suoi piccoli che nidificò sulle fronde dell’albero huluppu. Ti ricordi di quei momenti?"
Enmerkar, respirò il dolce profumo della donna. Era un profumo che mai aveva sentito. In nessuno dei luoghi da lui visitati incontrò donna con un tale profumo. Lo inebriò subito. La sua mente ebbe un vuoto e poi ad un tratto ricordò. Il ricordo si fece vivido come se fosse stato vissuto il giorno prima.
Sì, ricordo, mia amata. Mi ricordo di quei giorni. Ricordo come piansi. La giovane dea dell’amore che sempre sorridente era, quel giorno pianse. Oh, come pianse la mia Inanna, quel giorno. Ed io per tuo amore e come giardiniere del tuo giardino scacciai il serpente dalle molte spire che si era annidato nelle radici dell’albero a te caro. Scacciai dal tronco robusto la vergine oscura, Lilith, e feci volar via l’uccello Anzu. Ed allora, le tue lacrime si asciugarono e tu per ricompensa, per amore, per dono mi facesti questa corona di fronde. Con le fronde dell’albero huluppu tu la intrecciasti e me la misi sul mio capo, con amore.”
La ragazza nell’oscurità del Sahuru guardò il giovane Enmerkar e un dolce sorriso spuntò sulle sue sensuali labbra. Quel sorriso fu capace di far sciogliere il valoroso guerriero.
Enmerkar, non si sentiva più lui, si sentiva un altro. Aveva i ricordi di un altro eppure era allo stesso tempo ancora lui. Era sia Enmerkar che Dumuzi, il giardiniere della Dea.
La dea ora radiante e sorridente gli si fece più vicino poggiò la sua testa sul possente petto del principe. Enmerkar pose una mano sulla nuca della ragazza, e non sapendo perchè si sentì pervaso di un immenso amore per questa donna che fino a poco tempo prima neanche conosceva. Ma il suo essere era felice, si nutriva di questo stato e non voleva porre ostacolo a questo sentire tutto nuovo per lui. Non aveva mai amato in questo modo una donna.
La donna sollevò nuovamente il volto e negli occhi di lui si perdettero i suoi.
Disse: “Sposo, caro al mio cuore, grande è la tua bellezza. Tu mi hai avvinta come allora anche oggi. Lascia che io resti tra le tue braccia. Vorrei essere condotta da te sul talamo di nero basalto. Lascia che ti accarezzi le braccia, lascia che ti accarezzi le spalle. Senti le mie mani sulla tua pelle, sentile perché sono più soavi del miele. Conducimi sul nero talamo. Prendi da me il tuo piacere. Sposo caro al mio cuore, dormi tra le mie braccia fino a quando la mia stella brilla in alto nel cielo. Fino a quando la sua luce illumina l’oscurità del Sahuru.”



Tavoletta II


I primi giorni, i primissimi giorni
le prime notti, le primissime notti
i primi mesi, i primissimi mesi
il mio signore fu pervaso
di una felicità
difficile da descrivere.
Il suo vigore e la sua forza
sembravano rafforzate, centuplicate.
Nuove e grandi imprese compì
in quei giorni.
Ma poi tutto ad un tratto
il suo umore mutò.
Diventò più riflessivo
incominciò ad evitare la compagnia,
anche la mia.
Il mio signore mutò
il suo umore.
Diventò triste e depresso.


Da quella notte tornò spesso al tempio.
Volle anche incontrare la ragazza
con cui aveva giaciuto quella notte.
Anche se tutte le consuetudini
lo proibivano.
La incontrò.
Ma non gli fu di giovamento.
Anzi, mi confidò che in lei non c'era
nulla della donna
che aveva incontrato quella notte,
la notte della festa dell'anno nuovo.
Nulla valsero le parole
dei sacerdoti che gli dicevano che
lui aveva giaciuto non con una mortale
ma con la dea della Primavera e dell'Amore.


Lui divenne sempre più irrequieto, incominciò a passare sempre più tempo al tempio. Prese a curarsi del giardino del tempio e del grande albero. Sotto le sue fronde passò sempre più ore leggendo le antiche tavolette che raccontavano i tempi antichi, quando dal caos primordiale tutto prese forma. Si intratteneva con i sacerdoti. Fece arrivare fino ad Uruk, dai quattro angoli del mondo, i più grandi saggi. Ma nessuno di essi aveva la risposta che stava cercando.
E così la sua ricerca continuava, trascinandolo in un vortice che lo portava sempre più ad isolarsi, ad abbandonare i passatempi del passato, la compagnia di amici e donne. Voleva trascorrere il suo tempo solo in compagnia di saggi e dotti sotto l'ombra del grande albero. Mutò anche il suo nome da Enmerkar a Dumuzi. E così volle farsi chiamare da tutti.
Passarono gli anni, innumerevoli anni trascorsero. Il sovrano, suo padre morì e il mio signore, Enmerkar, lo sostituì sul trono dei leoni di Uruk. La barba del mio signore da nera corvina incominciò a imbiancarsi. Il vigore del guerriero abbandonò il suo corpo per lasciare spazio alla figura di un saggio.
Una notte, una notte si alzò, il mio signore, e con le sue urla e i suoi ordini svegliò tutto il palazzo. Si diresse nell' ampia sala del trono e volle che tutti i saggi da lui invitati in città vi si riunissero. Ordinò agli scribi di segnare nelle morbide tavolette d'argilla ogni singola parola che fosse stata pronunciata quella notte. Tra di essi vi ero anch'io.
Il mio signore interrogò i saggi, ponendogli le stesse domande che già innumerevoli volte gli aveva posto.
Chiese loro «Perché siamo qui? Perché sono imprigionato in questo corpo? Perché non posso raggiungere la mia dea? Cosa ci spinge a vivere su questa terra che sembra simile ad un giardino dorato, un recinto sacro creato per gli uomini, i lu.lu. Un E.DIN dalle sbarre dorate. Voi saggi mi avete più volte ripetuto di studiare la natura perché in essa avrei trovato le risposte che cercavo. Ebbene trenta dei miei anni ho trascorso nello studiare la materia di cui i corpi sono fatti. Ho studiato. Ho letto. Poi ho compreso che non la materia dovevo capire ma quella forza che la anima.»
Si intromise il saggio, Rekh-Khet-Sa, che dalla nera terra di Khum giunse: «L'uomo è una stella incatenata nella materia!»
«Dici il vero saggio, Rekh-Khet-Sa. E' a questo che sono giunto anch'io. Proprio grazie alle tue parole. Non nella materia devo ricercare ma in ciò che essa contiene.»
«Dentro di te trovi il paradiso....» aggiunse il saggio venuto dalla città di Ibla.
«Io questo ho capito. Ma come liberarci da queste catene? Come abbandonare questo luogo e giungere da dove siamo arrivati? Questo io cerco, questo io voglio raggiungere ma ormai gli anni trascorsi sono più di quelli da trascorrere e il mio obiettivo non l'ho ancora raggiunto.»
«L'uomo forte è colui che ha più sogni nell'anima di quanto la realtà possa distruggere.» Disse il saggio Khabir della terra delle spezie, quasi ad incoraggiare il mio signore.
E il mio signore rispose a lui:"Ed allora, spiegami Khabir, spiegatemi tutti voi, o saggi, perché ad ogni nuovo giorno ne vedo svanire uno. Non penso che avrò così tanti sogni fino a giungere alla fine del tempo. Li vedo svanire uno dopo l'altro. Forse tutto questo è solo un sogno dentro un sogno?»
La stanza cadde nel silenzio. Nessuno di quei saggi aveva parole con cui rispondere. I loro visi sembravano addolorati quasi che i dolori espressi dalle parole del mio re fossero i pensieri che da tempo albergavano nei cuori di quei dotti uomini.
Spezzò il silenzio lo stesso Enmerkar: «Questo ho deciso! Visto che voi, o saggi, mi avete spiegato che le catene che ci tengono legati a questi luoghi non si spezzano con la morte ma in altre vite siamo condannati a rivivere la nostra condanna ho deciso che se il mio intento non sarà portato a compimento in questa proseguirà per tutte le vite a venire. Fino a che ciò che è stato spezzato sarà riunito. Fino a che le catene che ci trattengono in questo luogo non saranno rimosse, il nostro impegno continuerà.»
«Scrivete, o scribi: 72 siamo in questa sala. 50 delle mie più fidate guardie, e voi 18 uomini dotti, più i quattro scribi: tra di essi il mio amico Endubsar e il suo allievo, Amir. Voi 72 uomini formerete un gruppo unito da un sacro giuramento che nè il tempo né la paura può sciogliere.»
Sì fermò quasi a cercare le parole più adatte, poi continuò:"Sarete come fratelli. Una fratellanza vi unirà. E questa fratellanza avrà come simbolo un albero, un frondoso e forte albero Huluppu. Voi sarete la Fratellanza dell'Albero. Il vostro compito sarà quello di tramandare il nostro impegno che questa notte abbiamo giurato. Il vostro compito sarà di ricercarvi vita dopo vita. Il vostro compito sarà di ritrovarmi vita dopo vita. Ed in ognuna di queste vite il nostro obiettivo proseguirà dal punto in cui lo avevamo lasciato nella vita precedente.»
Prese un respiro e con occhi speranzosi si rivolse a tutti quanti e disse: «Lo giurate?»
«Lo giuriamo! Questo sarà il nostro impegno vita dopo vita!» Tutti noi rispondemmo e tra questi pure io e il mio allievo.
Sul viso del mio signore, dopo tanti anni, vidi un espressione di sollievo. Quell'espressione di soddisfazione che si impossessa di coloro che raggiungono una tappa dopo tanti sacrifici.
«Io vi congedo, dormite, rinfrancatevi perché da domani cominceremo il nostro lavoro. Ora andate........e grazie per le vostre parole.....»
Mentre uscivo mi chiese il mio signore: «Cosa ne pensi, Endubsar?»
«Non dare appuntamenti strani, perchè non sai...non sai ciò che sarà.» così io risposi.
E lui ormai molto più saggio di me disse: « Se tutto questo è solo un sogno esso svanirà al nostro risveglio. Se invece si tratta di un gioco sarà un bel gioco che condurremmo nel corso dei millenni. Se invece questa è la realtà sarà la ragione del nostro vivere perché la vittoria ci darà la liberazione dalla nostra schiavitù. Come vedi non perdiamo nulla in nessun caso.»
Mi sorrise.
Quel sorriso mi bastò. Ora aveva uno scopo. Tutti noi avevamo uno scopo!

venerdì 20 luglio 2012

La Taranta o Tarantella



Breve documentario realizzato dall'antropologo Ernesto De Martino sul rituale della Taranta o Tarantella. Il rituale veniva esguito per allontanare dal malatto il tarantismo e consiste in alcune danze cadenzate da una incessante musica ritmata e continua. Un pò in tutta l'Italia meridionale vi era la credenza che il tarantismo fosse causato dal morso di un ragno "mitico" e che il suo veleno fosse la causa dei dibattimenti fisici, del malumore e dei mali dell'animo. Il tarantismo ebbe origine dalla contaminazione di riti orgiastici e iniziatici precristiani fra l' 800 e il 1300 d.C. Tracce documentali del rituale risalgono fin dal 1700 quando la Chiesa nella speranza di una liberazione degli invasati sostituì alla divinità pagana l'immagine di San Paolo.

domenica 15 gennaio 2012

Ritualità della Morte in Barbagia. (Conferenza di Cagliari, 22/12/2011)

La giovane sociologa Stefania Mattana presenta a Cagliari il suo saggio etno-sociologico "Ritualità della Morte in Sardegna". L'evento promosso dall'associazione culturale e studentesca Terra Mea, in collaborazione con l'Ersu, ha permesso ai presenti di intervenire con domande e chiedere approfondimenti sul lavoro svolto dalla sociologa. Il saggio antropologico si presenta come un aggiornamento dei rituali funebri svolti in Sardegna e in particolare in Barbagia. In esso si possono trovare numerosi riferimenti a figure mitiche come s'Accabadora, le Panas, le Attitadoras e vengono raccontati anche i rituali legati al lutto, come quello del dono offerto ai parenti del defunto.


giovedì 5 gennaio 2012

I Rituali della Morte

di Nannai


La vita degli individui di tutti i popoli sia del Presente che del Passato è da sempre scandita da importanti avvenimenti  che coinvolgono non solo il singolo individuo ma tutto il gruppo a cui questo individuo appartiene. Ogni individuo è qualcosa di unico per il gruppo di cui fa parte e l'accettazione nel gruppo avviene solo dopo che questo ha superato alcune prove. Queste possono coinvolgere attivamente o passivamente l'individuo. Passiva è sicuramente la prova che i nuovi nati, in una popolazione primitiva, devono affrontare per essere accettati dal gruppo. Prima che ciò avvenga, il neonato deve superare il primo anno di vita perchè possa venir accettato sia dai genitori che dal gruppo e solo allora gli verrà assegnato un nome con cui chiamarlo. 
I momenti importanti della vita di un individuo sono la nascita, l'iniziazione all'età adultà, l'unione coniugale e la morte .
Tutti questi momenti sono sempre profondamente segnati da pericoli che possono anche portare alla morte. Così è noto che, in molte tribù del passato,  al momento della pubertà dei ragazzi, quest'ultimi si sottopongano a cerimonie di iniziazione; e una delle più comuni è quella di fingere di ucciderlo per poi riportarlo in vita. 
Una volta rinato gli viene anche assegnato un nuovo nome e con questo nuovo nome verrà chiamato dagli altri appartenenti al gruppo. Questo rito che probabilmente è memoria di antichi rituali in cui il ragazzo doveva affrontare realmente delle prove pericolose si è trasformato in una forma più attenuata in cui la morte è solo simbolica. 
E' opinione di molti che questi fenomeni non  avvengano più nella nostra società occidentale. Questo è vero solo in parte, alcune forme sono andate attenuandosi fino a scomparire ma riti di iniziazione avvengono continuamente in gruppi di fratellanze come la massoneria o nell'inserimento in gruppi religiosi. Anche in questi casi è comune osservare un rituale in cui compare una morte simbolica e subito dopo la rinascita.
Come può, ormai, apparire evidente in tutte queste tappe della vita di un individuo è sempre presente la morte.
Questa parola è ormai tabù nella opulenta e longeva società occidentale. Nella nostra società questo fenomeno è sempre più relegato in luoghi appartati e lontani dalla comunità a cui il defunto apparteneva e spesso lontano anche dalla famiglia.
La morte del corpo fisico rappresenta la vera morte. E' il momento in cui l'individuo lascia realmente la comunità: egli l'abbandona lasciando un vuoto in essa e nei cuori dei suoi componenti. E' dunque, un fenomeno cruciale per la sopravvivenza stessa del gruppo. Quest'ultimo deve quindi porre in atto alcuni rituali per fare sì che esso sopravviva e il defunto percorra la sua strada senza intoppi.
Anche in Sardegna si possono osservare questi fenomeni, in particolare per quanto riguarda i rituali funebri. Per poter parlare di queste usanze sarà utile riportare alcuni esempi relativi a questi riti. Per fare ciò mi voglio avvalere di un saggio di recente pubblicazione della giovane sociologa Stefania Mattana, intitolato "Ritualità della Morte in Barbagia".
 Il saggio si presenta come un ottimo lavoro di raccolta delle testimonianze relative alla morte nella società contemporanea della Sardegna e in particolare della Barbagia. Esso si inserisce tranquillamente tra i migliori studi antropologici  ed etno-sociologici relativi alle usanze e ai riti della Sardegna. Il suo valore aumenta per la recente pubblicazione in quanto mette in evidenza quali usanze e riti continuano a venir mantenuti e quali sono andati perduti.
Della Sardegna si dice che in essa vi si possano trovare delle antiche credenze ancora vive. Non è sempre così, ma forse per quanto riguarda le usanze funebri sembra che sia vero. Il saggio della Mattana riporta fedelmente quali sono i rituali che ancora oggi vengono compiuti nella Sardegna contemporanea.
Quello che più mi ha impressionato è che nei racconti dei testimoni e degli intervistati vengono ricordate figure come S'Accabadora, le Panas, le Rias e le Prefiche.
Tra tutte, le Prefiche sono quelle che mi hanno permesso di richiamare alla memoria letture passate sulle usanze funebri che venivano svolte nell'antico mondo euromediterraneo. 
Il compito delle Prefiche era quello di ricordare solennemente le azioni compiute in vita dal morto attraverso un canto tragico e lamentoso. Dai sardi vengono chiamate "Attitadoras", e come si può leggere nel saggio della Mattana, esse sono come delle "sacerdotesse dell'aldilà che evocano la morte, interagendo con gli elementi infausti e tetri". 
Queste figure erano sempre di sesso femminile, raramente si ricordano uomini, in genere parenti strette del defunto o altre volte semplici vicine di casa. Ad esse si univano le lamentatrici di "professione", chiamate per intonare i loro antichi canti composti da parole in versi che rasentavano la composizione poetica.
Ma ciò che più incuriosisce, e in un certo senso affascina, sono le azioni compiute da queste donne durante il loro triste canto. Ed è,proprio, nel loro agire che si riesce a trovare un filo conduttore con il passato:
"Esse iniziavano sommessamente il loro pianto, in un tono crescente che le portava ad urlare, strammazzare in terra o stare sulle ginocchia, a graffiarsi le guance, strappandosi la chioma, battendosi il petto e lacerando con i denti i fazzoletti con cui si asciugavano le lacrime...."
di Stefania Mattana
Zènìa Editrice
Questo passo, tratto dal saggio della Mattana, richiama alla memoria un ben più famoso pianto. Il lamento di uno degli eroi della Guerra di Troia, Achille piè veloce che si strazia per la morte del suo caro amico e compagno, Patroclo, caduto in battaglia per mano del valoroso Ettore. Come si può leggere nel passo, che riporto qui sotto, numerosi sono i punti di contatto che richiamano alla mente il lamento delle Attitadoras sarde, testimoniando che le azioni compiute da queste donne si sono fossilizzate nel tempo all'interno di un rito che non è mutato nei millenni.


"Mentre che questi pensieri agitava nel sangue e nel cuore,
ecco gli venne vicino il figliulo di Nestore chiaro,
lagrime calde versando, e messaggio parlò di dolore;
Ahimè, figlio di Peleo guerriero, che tristo messaggio 
ascolterai! quale cosa, che no, non doveva accadere!
Patroclo giace atterrato, ed al morto si battono intorno!
nudo! che l'armi Ettore ha, il guerriero dell'elmo ondeggiante.
Disse; e colui del dolore la nuvola nera coperse:
con le due mani egli prese la polvere del focolare,
e sulla veste odorata aderiva la cenere nera.
Esso gigante così nella polvere lungo disteso
tutto giaceva, la chioma strappandosi con le sue mani,
mentre le ancelle che Achille avea prese con Patroclo, in guerra,
tutte dolenti nel cuore strillavano forte, e via, fuori
corsero intorno ad Achile guerriero, e lì tutte con mano 
si percottevano il petto, e si sciolsero a tutte i ginocchi.
D'altra parte versava le lagrime Antiloco, a goccie,
con nelle proprie le mani d'Achille, che muto gemeva;
ch'esso temea non la gola così si tagliasse col ferro."
Iliade, Liber XVII, 15-34.


Il lutto è un altro momento particolare dei riti funebri sia per la famiglia che per la comunità; un momento in cui la comunità matura ed elabora la mancanza della persona scomparsa. Quello che è più impressionante è che, anche, a questo livello si può individuare quello che abbiamo messo in rilievo per il singolo individuo. Nei riti, di cui abbiamo parlato più sopra, abbiamo sempre visto che dopo la morte simbolica dell'individuo questa veniva seguita da una rinascita. Così, anche nel caso della morte fisica, della vera morte che sottrae il proprio caro alla famiglia e alla comunità, nei diversi popoli si è sviluppata la convinzione nell'immortalità dell'individuo oppure nella sua capacità di rinascere in una nuova vita. 
Ed è solo quando tutti i rituali che accompagnano il lutto sono stati compiuti, e che servono alla comunità per elaborare la perdita, solo allora il defunto è veramente libero. Il suo viaggio verso l'altro mondo è andato a buon fine grazie ai riti.




Bibliografia


- Gregory Smyth -Il Cannibalismo. Due esempi amazzonici.- Loescher Editore Torino 1983


- James Frazer - Il Ramo d'Oro - Newton&Compton Editori


- Stefania Mattana -  Ritualità della Morte in Barbagia - Zènìa Editrice di Mario Murru, 2010


- Omero - Iliade. Liber XVII, 15-34