giovedì 17 febbraio 2011

Monte d'Akkoddi - La Ziggurat Sarda

Monte d’Akkodi
La Ziggurat Sarda

di Nannai

Quando si parla di piramidi rapido corre il nostro pensiero alle antiche piramidi di Giza e subito dopo si presentano alla nostra memoria le immagini delle bellissime piramidi a gradoni del Centro-America oppure le alte ziggurat mesopotamiche. Al lettore più attento alle questioni della localizzazione diAtlantide verrà anche in mente la piramide sommersa di Yonaguni, al largo delle coste giapponesi. Ma, molti ignorano che per poter visitare una piramide non è necessario attraversare interi oceani o varcare i confini nazionali e giungere fino alle calde sabbie della piana di Giza oppure arrivare alla martoriata terra fra i due fiumi, fino all’antica città di Ur.
Esiste, infatti, un isola al centro del Mediterraneo occidentale, conosciuta oggi con il nome di
Sardegna, ma in passato nota al mondo greco con i nomi di Jchnussa, Sandalyotin, Argyrophlebs (Vene d’Argento), o al mondo dell’antico Medio Oriente con il nome di SHRDN (toponimo che si ritrova nella famosa Stele di Nora) e da cui l’isola ha preso il suo nome attuale; in quell’isola, dicevamo, baciata dal sole, a Nord, a pochi chilometri da Porto Torres, sul Monte d’Akkodi, sorge una singolare ziggurat.
La struttura di questa piramide ricorda con facilità le ben più famose piramidi a gradoni dell’antica Ur e sembrerebbe testimoniare un contatto tra le civiltà sumero-accadica del tipo di quella sorta ad Ur e la Sardegna.
Come per le altre piramidi distribuite in tutto il mondo, anche per la ziggurat sarda, gli archeologi conferiscono ad essa una valenza religiosa. In altre parole, si tratterebbe di un luogo sacro in cui gli antichi abitanti della Sardegna eressero la loro piramide e sulla sua sommità edificarono un tempio dedicato alla loro divinità ancestrale.
La costruzione piramidale sembra essere stata da sempre l'edificio preferito dagli antichi per mettere in contatto il mondo divino con quello umano, per creare una piattaforma che permettesse in quel luogo sacro di avere un collegamento tra cielo e terra. Una porta d'accesso per gli dei in questa nostra dimensione, in questo mondo che chiamiamo realtà di tutti i giorni.
È noto che per gli antichi la scelta di un luogo per l’edificazione di un edificio sacro non era casuale. Veniva, infatti, scelto dai sacerdoti o dagli sciamani delle antiche tribù per le sue caratteristiche energetiche. È così doveva essere avvenuto anche per Monte d’Akkodi.
La piana di Monte d’Akkodi è sempre stata, fin dalle prime frequentazioni umane, un luogo sacro. Le prime testimonianze di frequentazione del pianoro di Monte d’Akkodi si possono far risalire alla cultura di Ozieri, al neolitico medio (c.a. 4000 a.C.). Al neolitico recente invece è da attribuire la costruzione di diversi villaggi che gravitavano intorno ad un centro sacro-cerimoniale caratterizzato da diversi menhir, lastre sacrificali e blocchi sferoidali (tra cui il cosiddetto omphalos, una sfera di 4,5 m di diametro e 1,3 tonn. di peso) che per noi moderni risultano avere un misterioso significato cultuale.
Ed è in questo stesso luogo che le genti della Cultura di Ozieri edificarono un primo santuario, che sarebbe diventato la base su cui si eresse la successiva ziggurat di Monte d’Akkodi. Questo primo santuario era caratterizzato da una forma troncopiramidale alta circa 5,5 m. preceduta da una lunga rampa. Tutte le superfici di questo primo edificio sacro erano dipinte di ocra rossa, da qui deriva anche la denominazione di “Tempio Rosso”con cui gli archeologi si riferiscono a questo primo santuario.
Il Tempio Rosso viene abbandonato per un certo periodo probabilmente in seguito ad un forte incendio che lo distrusse completamente. Solo intorno al 2300 a.C., sui resti preesistenti, viene edificato il “Tempio a gradoni” che ancora oggi è possibile visitare. Il tempio viene innalzato e per poter raggiungere la sommità, ora più alta, viene costruita una nuova rampa, lunga 41,80 m, che si sovrappone a quella preesistente.
L’edificio di Monte d’Akkodi risulta essere unico nel suo genere sia in Sardegna che in tutto il
Mediterraneo e per trovare qualcosa di simile, come dicevamo in precedenza, dobbiamo rifarci alle costruzioni templari della Mesopotamia.
Ma tutto ciò cosa può significare? Quest’edificio, così simile alla ziggurat di Anu o AN, ad Uruk, sembrerebbe documentare un collegamento tra la Sardegna e il mondo mesopotamico. Ma secondo la storia e l’archeologia ufficiale i popoli che vivevano lungo le sponde del Mediterraneo, nel III millennio a.C., non erano dei così abili navigatori e le loro sortite in mare si limitavano ad una navigazione a vista. Quindi non poteva esserci stato un contatto. Ma la presenza della ziggurat sarda sembrerebbe testimoniare il contrario.
Infatti, da sempre la Sardegna, al centro del mare nostrum dei latini, è stata il ponte che collegava legenti del Mediterraneo occidentale con quelle orientali e lì su quest’isola queste genti si frequentavano e si scambiavano le loro merci e le loro conoscenze.
I ritrovamenti fenici, scoperti nella Sardegna meridionale documentano che già agli inizi del VII secolo a.C. se non sul finire del IX secolo, questi mercanti naviganti compivano la traversata in mare aperto dalla Sicilia nord-occidentale alle coste meridionali della Sardegna. Essi giungevano ai porti sardi dopo una lunga navigazione d’altura. E sempre fenicie sono le tracce di una prima presenza stanziale nell’isola sarda proprio a nord, nel villaggio indigeno di Sant’Imbenia, in provincia di Sassari, non molto lontano da dove sorge la ziggurat di Monte d’Akkodi. Quindi già all’inizio del I millennio a.C. esisteva un collegamento tra Sardegna e Medio Oriente.
Ma la costruzione piramidale sarda è di almeno un millennio e mezzo più antica, quindi i rapporti tra l’isola e il mondo sumero-accadico dovevano essere avvenuti molto prima. La domanda successiva a cui rispondere era quella se a quel tempo l’uomo compiva traversate in mare così lunghe. Una prova di questo, sebbene indiretta, ci viene da un altro mistero, quello degli antichi geroglifici egizi ritrovati in una grotta della foresta del Parco Nazionale della Hunter Valley, in Australia. Secondo i ricercatori che li hanno studiati essi sono autentici e risalgono a circa 4500 anni fa.
L’anziano egittologo Ray Johnson sarebbe riuscito a tradurre i geroglifici della grotta. Ne è emersa una saga tragica di antichi esploratori, naufragati in una terra sconosciuta, e la morte prematura del loro capo di stirpe regale, ‘il Signore Djes–eb.
Quindi l’uomo del terzo millennio a.C. era capace di fare lunghe traversate per mare. Dunque, una presenza di abitanti della Mesopotamia in Sardegna non risulta più così difficile da credere.
Anche tra gli studiosi di archeologia sarda si sostiene da sempre una derivazione della Civiltà Nuragica da quella Mesopotamica. Sostenitore di questa interpretazione, nei suoi libri e nelle sue lezioni universitarie, è anche il professor Giovanni Lilliu, accademico dei Lincei. In particolare, egli parla di “facies anatolica” intendendo con ciò una provenienza dalla Mesopotamia settentrionale. Anche il professor Garbini nel suo “Filistei” scrive : “Uno dei gruppi che formavano la tribù di Zabulon aveva per eponimo un certo Sared, ……un nome che, come avviene spesso nell’Antico Testamento, è secondario rispetto all’etnico, che in questo caso è sardi, cioè “sardo”. (Genesi 46,14 e Numeri 26,26)”.
E da questo il professor Garbini ne deduce: “Da un punto di vista linguistico questa forma ebraica è molto interessante perché, affiancandosi al latino sardus conferma la natura di suffisso della –n finale che compare in altre forme come Shardana, Sardinia, SHRDN (quest’ultima attestata in un antica iscrizione fenicia trovata a Nora in Sardegna).”
Altre prove che supportano una derivazione della cultura nuragica dal mondo mesopotamico ci
vengono dallo studio della linguistica, in particolare dallo studio dei toponimi (lett. nome del luogo), che si mantengono inalterati nel corso dei millenni e nel corso degli avvenimenti storici che spingono le popolazioni a sostituirsi a quelle precedenti. Sostenitore di questa ipotesi è Raffaele Sardella che nel suo “Il sistema linguistico della Civiltà Nuragica” sostiene che nei numerosi eponimi e toponimi diffusi in tutta la Sardegna è possibile riscontrare traccia di una derivazione della lingua degli abitanti della Sardegna dell’età nuragica dalla lingua sumero-accadica. Egli vede anche nell’abitudine dei sardi di sillabare e, cioè, di scandire le sillabe, come se fossero indipendenti in ogni singola parola, una conseguenza del fatto che, in passato, i sardi erano abituati a parlare una lingua monosillabica e questa tendenza sarebbe rimasta anche nelle lingue successivamente apprese. Questa lingua monosillabica, originale, secondo il Sardella, non era altro che il sumerico, lingua monosillabica e agglutinante per eccellenza.
Mantenendoci in tema di linguistica, e seguendo la via tracciata dal Sardella, possiamo anche trovare una spiegazione del toponimo Monte d’Akkodi. Il termine Akkodi, infatti, non risulta essere frequente nella lingua sarda. Per spiegare l’origine di questo misterioso toponimo si sono fatte delle associazioni linguistiche che appaiono spesso forzate. Vediamo cosa scrive Ercole Contu nel suo “Sardegna Archeologica - L'Altare preistorico di Monte D'Accoddi”: “Più problematica appariva la seconda parte del nome, che venne fatta derivare da un’erba (kòdoro, cioè terebinto) o da luogo di raccolta (accoddi) o da corno (la corra) o, addirittura, dall’espressione che in sardo si usa per dire facciamo l’amore?! Solo di recente il Prof. Virgilio Tetti ha potuto accertare che il nome più antico documentato nelle carte catastali è Monte de Code, che significava Monte-collina delle pietre (coda/e significa pietra/e).”
Come si può osservare non si ha una certezza della derivazione del nome in questione. Ma, forse la spiegazione di questo antico e misterioso toponimo si ritrova ancora una volta andando a leggere l’opera del professor Garbini. Egli scrive: “La presenza di un gruppo sardo nella compagine di una tribù israelitica insediata a sud-est di Akko, nonché di un possibile toponimo con la stessa origine nella medesima zona, riveste un duplice valore storico, perché da un lato conferma il dato egiziano sulla presenza di sardi nella Palestina settentrionale…”.
Dunque, in Medio Oriente esiste un toponimo, Akko, che ricorda da vicino quello di Monte d’Akkodi.
Ma quale divinità veniva adorata nel tempio di Monte d’Akkodi? Numerosi sono stati i ritrovamenti di statuine votive della Dea Madre. Quindi è probabile che vi si adorasse una divinità femminile. Se dunque, è corretta la nostra interpretazione di una derivazione della cultura nuragica da quella sumeroaccadica non dovremo essere lontani dalla verità se pensiamo che i riti che lì vi si officiavano erano gli stessi che si tenevano nella ziggurat di Ur. Ad Ur, nel nono giorno dall’inizio del nuovo anno, veniva officiato il rito che svelava i misteri della creazione del genere umano.
Esso era preceduto da una processione che congiungeva la ziggurat con il tempio sacro ad Ishtar, la dea più importante della città, altrove conosciuta come Inanna o Astarte e rappresentante quella divinità matriarcale che conosciamo in tutto il mondo antico con il nome di Dea Madre.
Di questo parere è anche il professor Lilliu che così scrive in “La società in Sardegna nei secoli -
Prima dei nuraghi”:
“..Il tipo di tempio conosciuto - lo ziqqurath di Monte d'Accoddi presso Sassari - è basato sulla
concezione vegetativa-uranica dell'albero della vita, un simbolico altissimo albero che avrebbe unito terra e cielo. Sull'alto dello ziqqurath il dio Sole sarebbe sceso a giacersi con la Grande Sacerdotessa, immagine terrena della Dea Madre, o dea della fertilità agraria e umana. Documenti e simboli di queste divinità sembrerebbero una grossa pietra sferica (paragonabile all'omphalos del culto apollineo), e due menhirs di diverso colore: bianco e rosso (colori che stilizzano le carni femminili e maschili); lo sono parecchie statuette femminili marmoree rinvenute tra le rovine dell'edificio che è in forma di tronco di piramide terrazzata preceduta da una rampa sulla fronte.”
Ma i misteri della ziggurat sarda non terminano qui. I riti che lì vi si tenevano dovevano essere
accompagnati da cruenti sacrifici animali (forse anche umani?). Di questi rituali ne dà testimonianza l’ampio altare sacrificale di pietra calcarea che si trova a lato della rampa
che porta su fino al tempio. L’altare, che misura 3,15x3,20 m, e del peso di poco più di otto tonnellate, è caratterizzato da sette fori che si trovano lungo i suoi bordi che permettevano
il fluire del sangue delle vittime sacrificali fino all’inghiottitoio naturale che si trova sotto di esso e, lì, di accumularsi. Forse, utilizzato per il culto della Dea Madre o del sotterraneo culto del mondo dei morti. Oppure una spiegazione di un tale sofisticato sistema di raccolta del sangue lo si può trovare in un passo delle “Tavolette di Smeraldo di Thoth”, in cui si dice che: “In un lontano passato, prima dell’esistenza di Atlantide, là c’erano uomini che ricercavano nell’Oscurità, usando la magia nera ed evocando esseri dalle profondità sotto di noi.
Così essi entrarono in questo ciclo. Erano, senza forma, appartenenti ad un’altra vibrazione, vivendo non visti dai figli degli uomini della Terra. Solo attraverso il sangue sarebbero potuti essere formati. Solo tramite l’uomo avrebbero potuto vivere nel mondo”
Dunque, era noto agli antichi officianti che, affinché il rito della congiunzione del dio Sole con la Gran Sacerdotessa nel tempio potesse avere luogo, era necessario che il dio assumesse forme corporee utilizzando il sangue delle vittime sacrificali.
Ma cosa spinse i popoli della fertile Mesopotamia ad abbandonare le proprie dimore? Un eco di questa migrazione lo possiamo rintracciare nel racconto biblico di Abramo che abbandona la città di Ur con la sua famiglia. Infatti, la data in cui, secondo la Bibbia, Abramo lascia la città coincide con quella suffragata da prove storiche e archeologiche, della distruzione di Ur.
La scoperta fatta dal geologo Sharad Master dell’Università di Witwatersrand (in Sudafrica) di un cratere di 3,4 km di diametro, alla confluenza del Tigri con l’Eufrate, conferma l’impatto di un
gigantesco meteorite con la Terra. L’ipotesi di un evento catastrofico, come causa responsabile dei cambiamenti climatici, avvenuti intorno al 2.200 a. C., e che abbiano determinato il collasso della civiltà sumera è stata sostenuta da diversi studiosi nel corso degli anni. Master e Woldai, nel 2004 – 2006, hanno ipotizzato che proprio l’impatto di un meteorite, alla confluenza dei due fiumi mesopotamici, dove ora sorge il lago Umm al Binni, possa essere stata la causa di questi eventi.
Quindi un evento catastrofico spinse quelle genti ad abbandonare le loro terre e a spingersi al di là del mare per giungere fino in Sardegna, lasciando come testimonianza, per noi moderni, della loro presenza, la ziggurat di Monte d’Akkodi e i diversi nomi di luogo e persona che si ritrovano nell’isola sarda.

1 commento:

  1. interessantissima la visione della Sardinia che tu dai e nella quale mi ritrovo e quindi concordo a tutti gli effetti. sono per metà Sarda (Aritzo) e per metà Araba (Egitto).
    Riporto Qui la testimonianza di un mio zio, egittologo, che lavorava per il museo di Berlino sulla traduzione di un papiro che mai più fu tradotto dopo la sua prematura scomparsa (qualche maledizione?) .. Lui, amava raccontare alla mia mamma Sarda, che vi furono numerosi contatti tra Faraoni e il Popolo Sardo e che di questo se ne ha conferma negli antichi papiri. :)

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