di Nannai
Tavoletta
I
Di
un Guerriero, di una Dea e di un Albero
Così
parlò Endubsar
Grande
scriba della Casa dell’Albero,
figlio
della città di Uruk
fedele
servitore del re Enmerkar,
re
di Uruk.
Mi
sia testimone Enki,
Signore
della Terra,
che
tutto quanto riportato
in
queste tavolette
è
un fedele resoconto dei fatti
così
come si sono svolti in quegli anni dolorosi del mio signore.
Tutto
ebbe inizio
Il
nono giorno del nuovo anno,
il
giorno sacro alla dea Inanna,
signora
di Uruk.
È
in quel giorno che cominciarono
i
dolori del mio signore, Enmerkar.
Ed
è qui in queste tavolette che voglio raccontare
fedelmente
gli eventi così come si sono svolti in quegli anni.
Avanzava
con passo sicuro, lungo la via processionale, Enmerkar, principe
guerriero, figlio del re Meskiaggasher, che aveva
da poco fatto ritorno dalla campagna vittoriosa contro la città di
Aratta, al di là delle sette catene montuose. La folla, che
fiancheggiava la lunga via che portava al tempio, decorata con
immagini di draghi cornuti e di tori, lo salutava invocando il suo
nome e acclamandolo. Davanti a lui si stagliava l’E-anna, la Casa
del Paradiso, dimora della dea Inanna.
Lo
precedevano le ancelle danzanti, gli offerenti e i cantori che
innalzavano alla dea i loro canti. Dietro di lui, lo seguivano i suoi
armati, i fedeli guerrieri che ai suoi ordini riportarono numerose
vittorie. E, ancora dietro venivano i carri trainati dai forti buoi
colmi di ori, di lapislazzuli e dei tesori provenienti dalla città
sconfitta di Aratta, al di là delle sette catene montuose.
In
fondo alla via, davanti alle porte del giardino del tempio della dea
si trovava Meskiaggasher, signore di Uruk e Kullab, padre del
guerriero Enmerkar. Quando i due si trovarono l'uno di fronte
all'altro, dopo un intenso sguardo, si abbracciarono con forza. E poi
il padre Meskiaggasher, tenendo un braccio intorno al collo del
figlio, si rivolse al popolo che osservava i due sovrani, il re e il
principe. Il re Meskiaggasher si rivolse al suo popolo con voce
tonante dicendo: « Il nostro figlio Enmerkar ha fatto ritorno dalla
vittoriosa campagna contro la città di Aratta. E' una stupenda
notizia in mezzo a quelle tristi di quest'anno, duro e difficile. Voi
tutti sapete che gli dei del cielo non hanno reso floridi i raccolti
di quest'anno, le piogge si sono fatte attendere e il veloce Tigri e
il placido Eufrate hanno ridotto il loro flusso, causando un raccolto
povero e la fame del nostro bestiame. Oggi nel nono giorno sacro alla
dea Inanna si svolge l'antico rito che si ripete ininterroto fin
dall'inizio dei tempi, da quando la terra fu separata dal cielo, e fu
stabilito un nome per l'uomo.
In
questo giorno, in cui gli antichi misteri della creazione dell'uomo
vengono svelati al sovrano, che con la dea si congiunge nell'oscurità
del Sahuru. Io in questo
giorno ho deciso che ad officiare l'antico rito, sarà Enmerkar, mio
figlio, il valoroso guerriero che di numerose battaglie è il
vincitore; che il suo vigore possa appagare la nostra dea, così che
essa conceda fertilità alle nostre terre, vasti raccolti e un
bestiame grasso.»
Tutto
il popolo approvò questa notizia mandando un alto grido che si sentì
per tutta la via processionale fino alle porte del tempi.
Il re, felice della reazione del popolo, prese con entrambe le mani
le spalle vigorose del figlio e lo guardò negli occhi. Non servirono
parole, non servì altro che quell'intenso sguardo. Enmerkar che non
si aspettava quella scelta, al sentire la notizia perdette tutta la
sicurezza mostrata fino ad allora e la sua mente si perdette nel
vuoto. Ma l'intenso sguardo del padre lo riportò in sè.
Le
porte del tempio si aprirono dietro di lui,
lasciando intravedere al di là di esse il vasto
giardino della dea, una verde oasi ricca di vegetazione e di fiori.
Ne
uscì fuori un sacerdote dalla testa rasata. Si
fermò appena poco prima del limite della cinta muraria del tempio.
Meskiaggasher
spinse il figlio con una mano. Il Sacerdote si avviò facendo strada
al giovane principe.
In
mezzo al giardino si ergeva un grande albero, un solo albero, dalla
grande chioma con lunghi verdi rami rivolti verso terra. L'albero,
immerso in una vasca di acqua cristallina in cui crescevano i fior di
loto, sembrava animato dal leggero vento. Al passare del giovane
guerriero, i rami toccarono la nera chioma del giovane. E quasi a non
voler abbandonare quel fugace abbraccio, i lunghi e flessibili rami,
mossi dal vento, sembrarono seguire Enmerkar che si allontanava.
I
due uomini proseguirono per il lastricato e giunti alla base della
ziggurat incominciarono a salire i gradini che li portarono fin su,
in cima, nel tempio della dea. Qui, dentro, il sacerdote fece entrare
Enmerkar in un ampia sala dove venne spogliato dei suoi indumenti
dalle ancelle della dea. Il giovane principe venne lavato con acqua
profumata e unto con i preziosi oli estratti dalle più rare essenze.
I suoi neri capelli furono intrecciati, la sua barba pure. Gli fu
fatta indossare una preziosa tunica orlata d'oro e sul suo capo venne
posta una corona di fronde.
Il
sacerdote gli si avvicinò e parlando per la prima volta si rivolse
al giovane principe: “Tieni a mente queste parole: mantieni la
calma per tutta la notte. Indossa per tutta la notte la corona di
fronde. La dea ti riconoscerà. Tu non devi far altro che ricordare.
Ora seguimi.”
Uscirono
dalla sala, e attraversato un breve corridorio illuminato da due
bracieri, giunsero di fronte ad un altra porta. Questa era di pesante
legno, intarsiato con stupende immagini di
grandi e frondosi alberi.
Il
sacerdote aprì il portone e con un gesto del capo indicò ad
Enmerkar di entrare.
La
pesante porta si chiuse dietro di lui, lasciandolo nell’oscurità
più completa.
La
stanza era completamente al buio ed anche quando i suoi occhi si
abituarono all’oscurità non
riuscirono a vedere nulla. Sentiva, però, un leggero respiro
provenire dal lato opposto della sala.
Enmerkar
chiese “Qual’è il tuo nome?” “Sei tu la sacerdotessa della
dea?”
La
risposta che ebbe fu diversa da quella attesa. “Io non voglio. Non
voglio stare qui. Ho paura. No, non voglio! Perché? Perché a me?”
Enmerkar
quasi a tranquillizzare quella voce impaurita proveniente dal buio,
disse: “Tranquilla, non hai nulla da temere da me. Tu sei stata
scelta per ricevere la dea. La scelta è ricaduta su di te tra
centinaia di giovani donne tue pari. Dovresti esserne orgogliosa e
felice.”
Le
parole di Enmerkar sembravano non aver sortito effetto perché
dall’angolo oscuro si sentì provenire un pianto, intercalato da
singhiozzi soffocati.
Non
gli restò che attendere. Un pò perplesso e a disagio immerso in
quel buio con una donna che piangeva e che non poteva vedere.
Il
tempo in quella sala sembrava non scorrere mai. Nella piena oscurità
del Sahuru solo i pensieri che si susseguivano potevano dare un senso
di scorrimento del tempo. Alla fine anch’essi terminarono e il
tempo sembrò fermarsi. La temperatura della sala sembrò scendere
bruscamente. La ragazza non gemeva più. Poi da una fessura in alto
entrò una lama di luce bianca, lattea, perlacea che andò pian piano
ad illuminare l’angolo dove si trovava la ragazza. E per la prima
volta Enmerkar poté vedere con chi aveva passato tutto quel tempo
nell’oscurità.
Allora,
lei si alzò e gli si avvicinò.
“Chi
sei?” chiese Enmerkar.
“Come?
Non mi riconosci mio amato? Non ti ricordi di me, mio Dumuzi?”
“Non
hai ricordo della tua dea che tanto hai amato. Dei giorni passati
all’ombra del grande albero huluppu? Non hai ricordo, mio amato
Dumuzi, dei nostri abbracci e delle nostre carezze nel mezzo del
giardino che tu tanto hai curato? Non ti ricordi di quei momenti, mio
amato? Hai forse dimenticato?”
La
ragazza si avvicinò al giovane principe e lo guardò negli occhi.
Poi, sollevò le mani per mettergli bene la corona di fronde.
“Ancora
porti la mia corona, la corona che io ti feci con le mie mani, quando
tu con coraggio scacciasti il serpente resistente a tutti gli
incantesimi. Io te la regalai quando scacciasti la vergine oscura dal
tronco del mio albero. Te la intrecciai quando allontanasti con
coraggio l’uccello Anzu e i suoi piccoli che nidificò sulle fronde
dell’albero huluppu. Ti ricordi di quei momenti?"
Enmerkar,
respirò il dolce profumo della donna. Era un profumo che mai aveva
sentito. In nessuno dei luoghi da lui visitati incontrò donna con un
tale profumo. Lo inebriò subito. La sua mente ebbe un vuoto e poi ad
un tratto ricordò. Il ricordo si fece vivido come se fosse stato
vissuto il giorno prima.
“Sì,
ricordo, mia amata. Mi ricordo di quei giorni. Ricordo come piansi.
La giovane dea dell’amore che sempre sorridente era, quel giorno
pianse. Oh, come pianse la mia Inanna, quel giorno. Ed io per
tuo amore e come giardiniere del tuo giardino scacciai il serpente
dalle molte spire che si era annidato nelle radici dell’albero a te
caro. Scacciai dal tronco robusto la vergine oscura, Lilith, e feci
volar via l’uccello Anzu. Ed allora, le tue lacrime si asciugarono
e tu per ricompensa, per amore, per dono mi facesti questa corona di
fronde. Con le fronde dell’albero huluppu tu la intrecciasti e me
la misi sul mio capo, con amore.”
La
ragazza nell’oscurità del Sahuru guardò il giovane Enmerkar e un
dolce sorriso spuntò sulle sue sensuali labbra. Quel sorriso fu
capace di far sciogliere il valoroso guerriero.
Enmerkar,
non si sentiva più lui, si sentiva un altro. Aveva i ricordi di un
altro eppure era allo stesso tempo ancora lui. Era sia
Enmerkar che Dumuzi, il giardiniere della Dea.
La
dea ora radiante e sorridente gli si fece più vicino poggiò la sua
testa sul possente petto del principe. Enmerkar pose una mano sulla
nuca della ragazza, e non sapendo perchè si sentì pervaso di un
immenso amore per questa donna che fino a poco tempo prima neanche
conosceva. Ma il suo essere era felice, si nutriva di questo stato e
non voleva porre ostacolo a questo sentire tutto nuovo per lui. Non
aveva mai amato in questo modo una donna.
La
donna sollevò nuovamente il volto e negli occhi di lui si perdettero
i suoi.
Disse:
“Sposo, caro al mio cuore, grande è la tua bellezza. Tu mi hai
avvinta come allora anche oggi. Lascia che io resti tra le tue
braccia. Vorrei essere condotta da te sul talamo di nero basalto.
Lascia che ti accarezzi le braccia, lascia che ti accarezzi le
spalle. Senti le mie mani sulla tua pelle, sentile perché sono più
soavi del miele. Conducimi sul nero talamo. Prendi da me il tuo
piacere. Sposo caro al mio cuore, dormi tra le mie braccia fino a
quando la mia stella brilla in alto nel cielo. Fino a quando la sua
luce illumina l’oscurità del Sahuru.”
Tavoletta
II
I
primi giorni, i primissimi giorni
le
prime notti, le primissime notti
i
primi mesi, i primissimi mesi
il
mio signore fu pervaso
di
una felicità
difficile
da descrivere.
Il
suo vigore e la sua forza
sembravano
rafforzate, centuplicate.
Nuove
e grandi imprese compì
in
quei giorni.
Ma
poi tutto ad un tratto
il
suo umore mutò.
Diventò
più riflessivo
incominciò
ad evitare la compagnia,
anche
la mia.
Il
mio signore mutò
il
suo umore.
Diventò
triste e depresso.
Da
quella notte tornò spesso al tempio.
Volle
anche incontrare la ragazza
con
cui aveva giaciuto quella notte.
Anche
se tutte le consuetudini
lo
proibivano.
La
incontrò.
Ma
non gli fu di giovamento.
Anzi,
mi confidò che in lei non c'era
nulla
della donna
che
aveva incontrato quella notte,
la
notte della festa dell'anno nuovo.
Nulla
valsero le parole
dei
sacerdoti che gli dicevano che
lui
aveva giaciuto non con una mortale
ma
con la dea della Primavera e dell'Amore.
Lui
divenne sempre più irrequieto, incominciò a passare sempre più
tempo al tempio. Prese a curarsi del giardino del tempio e del grande
albero. Sotto le sue fronde passò sempre più ore leggendo le
antiche tavolette che raccontavano i tempi antichi, quando dal caos
primordiale tutto prese forma. Si intratteneva con i sacerdoti. Fece
arrivare fino ad Uruk, dai quattro angoli del mondo, i più grandi
saggi. Ma nessuno di essi aveva la risposta che stava cercando.
E
così la sua ricerca continuava, trascinandolo in un vortice che lo
portava sempre più ad isolarsi, ad abbandonare i passatempi del
passato, la compagnia di amici e donne. Voleva trascorrere il suo
tempo solo in compagnia di saggi e dotti sotto l'ombra del grande
albero. Mutò anche il suo nome da Enmerkar a Dumuzi. E così volle
farsi chiamare da tutti.
Passarono
gli anni, innumerevoli anni trascorsero. Il sovrano, suo padre morì
e il mio signore, Enmerkar, lo sostituì sul trono dei leoni di Uruk.
La barba del mio signore da nera corvina incominciò a imbiancarsi.
Il vigore del guerriero abbandonò il suo corpo per lasciare spazio
alla figura di un saggio.
Una
notte, una notte si alzò, il mio signore, e con le sue urla e i suoi
ordini svegliò tutto il palazzo. Si diresse nell' ampia sala del
trono e volle che tutti i saggi da lui invitati in città vi si
riunissero. Ordinò agli scribi di segnare nelle morbide tavolette
d'argilla ogni singola parola che fosse stata pronunciata quella
notte. Tra di essi vi ero anch'io.
Il
mio signore interrogò i saggi, ponendogli le stesse domande che già
innumerevoli volte gli aveva posto.
Chiese
loro «Perché siamo qui? Perché sono imprigionato in questo corpo?
Perché non posso raggiungere la mia dea? Cosa ci spinge a vivere su
questa terra che sembra simile ad un giardino dorato, un recinto
sacro creato per gli uomini, i lu.lu. Un E.DIN dalle sbarre dorate.
Voi saggi mi avete più volte ripetuto di studiare la natura perché
in essa avrei trovato le risposte che cercavo. Ebbene trenta dei miei
anni ho trascorso nello studiare la materia di cui i corpi sono
fatti. Ho studiato. Ho letto. Poi ho compreso che non la materia
dovevo capire ma quella forza che la anima.»
Si
intromise il saggio, Rekh-Khet-Sa, che dalla nera terra di Khum
giunse: «L'uomo è una stella incatenata nella materia!»
«Dici
il vero saggio, Rekh-Khet-Sa. E' a questo che sono giunto anch'io.
Proprio grazie alle tue parole. Non nella materia devo ricercare ma
in ciò che essa contiene.»
«Dentro
di te trovi il paradiso....» aggiunse il saggio venuto dalla città
di Ibla.
«Io
questo ho capito. Ma come liberarci da queste catene? Come
abbandonare questo luogo e giungere da dove siamo arrivati? Questo io
cerco, questo io voglio raggiungere ma ormai gli anni trascorsi sono
più di quelli da trascorrere e il mio obiettivo non l'ho ancora
raggiunto.»
«L'uomo
forte è colui che ha più sogni nell'anima di quanto la realtà
possa distruggere.» Disse il saggio Khabir della terra delle spezie,
quasi ad incoraggiare il mio signore.
E
il mio signore rispose a lui:"Ed allora, spiegami Khabir,
spiegatemi tutti voi, o saggi, perché ad ogni nuovo giorno ne vedo
svanire uno. Non penso che avrò così tanti sogni fino a giungere
alla fine del tempo. Li vedo svanire uno dopo l'altro. Forse tutto
questo è solo un sogno dentro un sogno?»
La
stanza cadde nel silenzio. Nessuno di quei saggi aveva parole con cui
rispondere. I loro visi sembravano addolorati quasi che i dolori
espressi dalle parole del mio re fossero i pensieri che da tempo
albergavano nei cuori di quei dotti uomini.
Spezzò
il silenzio lo stesso Enmerkar: «Questo ho deciso! Visto che voi, o
saggi, mi avete spiegato che le catene che ci tengono legati a questi
luoghi non si spezzano con la morte ma in altre vite siamo condannati
a rivivere la nostra condanna ho deciso che se il mio intento non
sarà portato a compimento in questa proseguirà per tutte le vite a
venire. Fino a che ciò che è stato spezzato sarà riunito. Fino a
che le catene che ci trattengono in questo luogo non saranno rimosse,
il nostro impegno continuerà.»
«Scrivete,
o scribi: 72 siamo in questa sala. 50 delle mie più fidate guardie,
e voi 18 uomini dotti, più i quattro scribi: tra di essi il mio
amico Endubsar e il suo allievo, Amir. Voi 72 uomini formerete un
gruppo unito da un sacro giuramento che nè il tempo né la paura può
sciogliere.»
Sì
fermò quasi a cercare le parole più adatte, poi continuò:"Sarete
come fratelli. Una fratellanza vi unirà. E questa fratellanza avrà
come simbolo un albero, un frondoso e forte albero Huluppu. Voi
sarete la Fratellanza dell'Albero. Il vostro compito sarà quello di
tramandare il nostro impegno che questa notte abbiamo giurato. Il
vostro compito sarà di ricercarvi vita dopo vita. Il vostro compito
sarà di ritrovarmi vita dopo vita. Ed in ognuna di queste vite il
nostro obiettivo proseguirà dal punto in cui lo avevamo lasciato
nella vita precedente.»
Prese
un respiro e con occhi speranzosi si rivolse a tutti quanti e disse:
«Lo giurate?»
«Lo
giuriamo! Questo sarà il nostro impegno vita dopo vita!» Tutti noi
rispondemmo e tra questi pure io e il mio allievo.
Sul
viso del mio signore, dopo tanti anni, vidi un espressione di
sollievo. Quell'espressione di soddisfazione che si impossessa di
coloro che raggiungono una tappa dopo tanti sacrifici.
«Io
vi congedo, dormite, rinfrancatevi perché da domani cominceremo il
nostro lavoro. Ora andate........e grazie per le vostre parole.....»
Mentre
uscivo mi chiese il mio signore: «Cosa ne pensi, Endubsar?»
«Non
dare appuntamenti strani, perchè non sai...non sai ciò che sarà.»
così io risposi.
E
lui ormai molto più saggio di me disse: « Se tutto questo è solo
un sogno esso svanirà al nostro risveglio. Se invece si tratta di un
gioco sarà un bel gioco che condurremmo nel corso dei millenni. Se
invece questa è la realtà sarà la ragione del nostro vivere perché
la vittoria ci darà la liberazione dalla nostra schiavitù. Come
vedi non perdiamo nulla in nessun caso.»
Mi
sorrise.
Quel
sorriso mi bastò. Ora aveva uno scopo. Tutti noi avevamo uno scopo!
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